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Noi li guardiamo distrattamente, sotto i portici di Milano, a un lato o all’altro della strada. Siamo di corsa. Scade il parcheggio. Dobbiamo raggiungere un collega. Comperare lo smartphone che si è frantumato dopo un improvviso scatto di ira. Li vediamo, ma non li guardiamo veramente. Sono monadi di una società in disuso. Li chiamiamo “disgraziati”. Non più barboni, perché non ne hanno neppure l’aspetto. Non sono neanche i membri di una banda giovanile. Sono diversi l’uno dall’altro. Possono avere 25 o 40 anni. A volte alcolizzati, altre tossici, altre ancora in equilibrio tra il mondo reale e l’utopia del niente. Convivono nell’incertezza della giornata, si conoscono, si badano, si picchiano e si prestano soccorso a vicenda. Sono solidali, di una solidarietà ottocentesca. Sono soli anche in gruppo. Non vivono l’inimicizia ma non sono neppure amici. Si sostengono se è necessario ma uno può anche sparire da un momento all’altro.
Non c’è giusto né...
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