Sanità e liste d’attesa. È vero che chi può paga e gli altri aspettano?

Di Caterina Giojelli
13 Febbraio 2023
Puntuali come le elezioni arrivano gli articoli-denuncia sul sistema sanitario: i ritardi nel recupero delle prestazioni perse col Covid sarebbero da attribuire al privato accreditato che lucra sui pazienti. Una tesi pretestuosa, ecco perché
Murales street art degli Orticanoodles con i maggiori "testimonial" della Storia della Medicina e della beneficenza milanese realizzati in beneficenza per il Policlinico, Milano, 17 Febbraio 2021. Ansa/Matteo Corner

Chi può paga, gli altri aspettano: puntuali come le elezioni, Milena Gabanelli e Simona Ravizza firmano sul Corriere un articolo contro la sanità privata. La notizia è che a Milano (fonte Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) le prime visite in regime di solvenza sono passate dal 41 per cento del 2019 al 58 per cento del 2022. Che significa? Che in Italia in generale – e in Lombardia in particolare – i privati «accorciano l’attività in convenzione e allargano quella dove il paziente paga di tasca propria perché il margine di guadagno è maggiore».

Conseguenza: il privato accreditato sarebbe il responsabile principale del peggioramento «disastroso» delle liste d’attesa in un momento in cui abbiamo da recuperare qualcosa come 8,4 milioni di visite e 1 milione di elettrocardiogrammi, prestazioni sanitarie perse durante il Covid. Un ritardo imperdonabile, considerati soprattutto i 500 milioni di risorse aggiuntive messe a disposizione con la legge di Bilancio 2021 per recuperare la domanda inevasa. Morale del Corriere: chi può paga, gli altri aspettano. Vero? In parte.

Non stiamo parlando di sanità “salvavita”

Le premesse sono due, e sulla prima c’è poco da girarci intorno: in un sistema sanitario fondato sulla salute come diritto di tutti, tutelato dalla Costituzione e garantito dallo Stato a contribuenti e non, il problema delle liste d’attesa è fisiologico. E questo «nonostante i 500 milioni di fondi» stanziati a pubblico e privato per favorire l’aumento delle prestazioni e degli stipendi dei medici e nonostante fior di ospedali abbiano fatto buon uso delle risorse per prolungare orari e turni di lavoro.

Seconda premessa: insistere sul numero di prestazioni perse durante il Covid funziona a livello di dibattito, ma nei fatti lascia il tempo che trova. È impossibile sapere se tutte, quante o quali prestazioni tra quelle conteggiate dall’Agenas per il Corriere vadano effettivamente recuperate. Da un lato c’è l’evidenza che il Covid abbia mietuto vittime tra i più fragili e bisognosi di assistenza sanitaria, dall’altro c’è la possibilità che i cittadini non abbiano più bisogno di una visita o una prestazione richiesta tra il 2020 e il 2021. E qui veniamo al nocciolo della questione: l’articolo del Corriere non tematizza la sanità in senso assoluto. A scanso di equivoci, non stiamo parlando di interventi “salvavita”, ma di prime visite, prestazioni specialistiche e ambulatoriali, prevenzione.

Liste d’attesa e appropriatezza

Sia chiaro: nessuno vuole ridimensionare il problema delle liste d’attesa, tanto meno discutere che prevenire sia meglio di curare (e spesso salva la vita). Ma constatare l’intento pretestuoso del Corriere nel ridurre un macrotema a microtema di immediato e facile riscontro per gli utenti, sì.

Un microtema in cui il criterio dell’appropriatezza – stella polare dell’erogazione delle prestazioni in ogni sistema sanitario che punti all’efficienza – è di difficile verifica e applicazione: molto banalmente, è più facile che un medico di base “abbondi” con le prescrizioni di esami o visite in presenza di un sintomo (e in assenza di condizioni critiche che richiedano un codice prioritario) piuttosto che avvenga il contrario. È chiaro che le visite di controllo di chi porta un peacemaker sono appropriate, ma gli esami dei check-up offerti come benefits ai lavoratori dipendenti in buona salute possono dirsi sempre appropriati?

Milano, perché lievitano i numeri del privato

E perché, a proposito di benefit e prevenzione, non immaginare che a Milano, patria del privato accreditato ma anche delle realtà più avanzate in tema di welfare aziendale e assicurativo, ricorrere al privato sia una scelta (e non un triste ripiego o una onerosa necessità) per gli utenti? Sappiamo benissimo che a Milano ci sono strutture sanitarie private che offrono visite e prestazioni specialistiche a prezzi quasi concorrenziali al ticket sanitario, riducendo a zero le attese e perfino i costi, qualora si trattasse di prestazioni coperte dalle ormai tantissime assicurazioni dei lavoratori. Lavoratori/utenti che – certo, spesso alimentando una domanda sanitaria non esattamente appropriata data la “convenienza”, “disponibilità” e “prossimità” offerta da queste strutture (per la serie, preferisco fugare ogni dubbio sulla mia salute con una visita o un esame) – vanno a implementare i numeri del privato. Cosa che, a voler leggere la vicenda dall’angolatura opposta, potrebbe anche contribuire, paradossalmente, a liberare posti nel pubblico e ridurre le liste d’attesa.

Dibattere sulla prospettiva tuttavia serve a poco: di fatto il problema della sanità in Italia è essenzialmente un problema di diseguaglianze regionali in termini di offerta e budget (anche per le prestazioni in convenzione con le strutture private) e ogni generalizzazione – a partire dai numeri di Milano – funzionale al dibattito resta nei fatti sterile.

Non è il business la causa delle attese

L’unica cosa certa è questa: non è disprezzando il business e richiamando il privato a un’etica delle priorità (il privato non può intervenire sul budget allocato dalle Regioni, deve stare in piedi da sé e se apre le porte solo ai pazienti solventi significa, banalmente, che i fondi non ci sono o sono stati già esauriti per le prestazioni in convenzione) che “gli altri” smetteranno di aspettare. Nemmeno giocando sui distinguo: la prestazione erogata dal privato in convenzione col Ssn e che cioè rientra nei Livelli essenziali di assistenza (Lea) resta ad oggi servizio pubblico.

Un servizio a cui tutti hanno diritto, ma che per una serie infinita di ragioni e fattori non è più sostenibile – basti pensare che quella privata rappresenta oggi un terzo della spesa pubblica sanitaria e la domanda di assistenza è in crescita esponenziale da almeno dieci anni.

Il tesoro di Lombardia e Lazio

Non è da escludere che in futuro la specialistica ambulatoriale non rientrerà più nei Lea, ma non è questo il tema dell’articolo del Corriere, e soprattutto dei programmi dei candidati alle regionali. Chiosa necessaria: non c’è nulla di più elettorale e scontato di un articolo-denuncia sulle mani dei privati sulla sanità ora che “stanno arrivando i fasci” e la sinistra punta sui classici intramontabili (aborto, transizioni di genere) per difendere il tesoro di Lazio e Lombardia. Un tesoro sul quale consiglio e governatori avranno ben poco margine di manovra.

Foto Ansa

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