
Educarsi alla realtà
Si parla molto di Ong in questo periodo e dopo la vicenda delle due Simone ne si discute addirittura l’operato. In un recente articolo sul Foglio, Edward Luttwak attacca le Ong occidentali che «vanno all’estero per aiutare tutti tranne gli occidentali», hanno una «fortissima predilezione per le zone di conflitto», «aiutano i singoli danneggiando i molti», «non accettano la semplice verità che non rappresentano nessuno se non se stesse», «fino a che non si mettono nei guai». Come risponde da responsabile di una Ong?
Innanzitutto il signor Luttwak dice tante cose su tanti argomenti, è un po’come quel vecchio che dal suo sacco tira fuori cose nuove e cose vecchie, alcune sono condivisibili altre molto meno. A queste rispondo che la definizione di “ong” è così generale e generica da non descrivere adeguatamente quello che caratterizza noi: una passione indomabile per l’uomo e per il suo destino, e non “spirito di avventura”, come viene detto in quell’articolo. Se ci pensiamo bene la stessa definizione “ong” è l’affermazione di una negazione: “organizzazione non governativa” afferma qualcosa che non è. In positivo ci sentiamo molto più definiti dall’essere un’impresa sociale di cooperazione, dove la parola impresa implica la necessaria efficienza ed efficacia e sociale indica che, invece del profitto, c’è un beneficio sociale per le persone che incontriamo. Questo è ciò che noi vogliamo fare e facciamo in 35 paesi del mondo con 80 progetti e 100 cooperanti che hanno scelto volontariamente di dedicare gran parte della loro vita al servizio delle persone che incontriamo, animati da questa grande passione per l’uomo che l’educazione cristiana che abbiamo ricevuto ci ha insegnato.
Ad Avvenire lei afferma, riprendendo le parole del Papa che «oggi più che mai non servono utopie, ma esperienze da praticare e da proporre: si deve passare dal sogno dell’ideologia al principio di realtà». Qual’è il principio di realtà nella situazione irakena, ora che tutte le Ong sono state invitate a lasciare il paese? Andarsene o restare?
In Irak stiamo continuando ad operare secondo una formula di prudenza che la situazione e il realismo cui siamo educati impongono. Continuiamo con il personale locale a ricostruire delle scuole materne dove i bambini irakeni, musulmani e cristiani, possono essere educati dall’inizio a una convivenza possibile. Ci siamo per questo. Naturalmente la situazione è molto difficile perché in questa guerra sbagliata – la guerra non aggiusta mai le cose, le rompe sempre di più –, quello che si è distrutto è un sistema amministrativo del paese che comunque lasciava a più dell’85% della popolazione la possibilità di percepire un salario. Tutti sanno che il programma “Oil for food” consentiva al paese di sopravvivere e che il reddito ricavato, fatto salvo le ruberie del regime, permetteva comunque alla gente di vivere. La cosa più urgente da fare allora è ricostruire un’autorità amministrativa capace di far ripartire il Paese.
Da cosa parte Avsi, da un luogo o da un progetto?
Parte sempre da una domanda concreta verificabile e verificata di aiuto. Non è mai esistito un progetto che non sia partito dalla concretezza della realtà e dall’incontro con persone che ci hanno segnalato una necessità e un bisogno. E questo sempre dopo aver verificato la nostra capacità di rispondere, secondo quello slogan che caratterizza da sempre la nostra campagna di sensibilizzazione per la raccolta di fondi: “Condividere i bisogni per condividere il senso della vita”.
Qual è il punto di partenza per scegliere un’esperienza di volontariato all’estero?
è sempre un’educazione. Un’educazione ricevuta, come un dono improvviso, dall’avere incontrato un contenuto ideale concreto e praticabile quale è per noi l’esperienza cristiana.
Don Giussani una volta disse: «La vocazione cristiana è una vocazione per l’uomo, perché si compia l’uomo, perché l’uomo ritrovi la felicità a cui aspira». Quanto conta la matrice cattolica dichiarata da Avsi nella scelta di fare il volontario?
Con noi non lavorano solo persone di radice cattolica, anche se la maggior parte viene da un’esperienza educativa molto precisa che si riconduce a don Giussani. Persone che condividono con noi il desiderio di ogni uomo di compimento della propria persona e della propria felicità e appassionatamente affermano l’irriducibilità dell’io che incontrano. Persone con cui lavoriamo e immaginiamo possibili soluzioni. Uno dei più grandi progetti che in questo momento stiamo gestendo è il progetto finanziato dalla Banca Mondiale a Salvador de Bahia, dove 150mila persone vivono su palafitte, e che ha origine nella richiesta del compianto cardinal Tancredo Moreira Neves di fare doposcuola ai piccoli favelados. Da questa esperienza di caritativa ora, dopo 12 anni, questo è diventato il progetto più significativo della Banca nell’ambito del programma “Cities Alliance”. Nessuno avrebbe potuto immaginarlo.
Nei vostri comunicati, nelle testimonianze dei vostri e negli incontri, torna sempre un’espressione: “Educare alla carità”. Cosa significa?
Quando Paolo e Pietro sono andati a Roma, nel cuore dell’impero globalizzato di allora, non hanno assaltato il senato romano, il G8 di allora, né hanno dato origine a un movimento no global. Hanno detto, e poi praticato nella vita: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna». Ed è cambiato il volto dell’impero. Credo che questa sia l’espressione suprema della carità e il fondamento di quella che noi chiamiamo civiltà occidentale. In questo senso educarsi alla carità è ultimamente riconoscere che la vita è un dono.
Cosa significa portare un concetto cristiano come quello di carità in contesti di organizzazioni internazionali come l’Onu o la Banca Mondiale?
Il termine “carità” viene oggi ridotto al gesto pietistico di “dare l’obolo a qualcuno”, e così facendo non se ne recupera mai il significato originale. La carità è ciò che permette, a partire da un’identità chiara, di abbracciare tutti e lavorare con tutti, dal presidente della Banca Mondiale, alla persona qualunque, dovunque nel mondo. Significa partire sempre dalla persona, dalla centralità della persona, perché lo sviluppo o è lo sviluppo dell’io, in termini di coscienza e consapevolezza personale, di dignità e di un destino di compimento di felicità, o non esiste. Il mondo cambia se cambiano le persone, una ad una. Non cambiando le strutture.
Il Papa ricorda continuamente che la pace e lo sviluppo sono possibili, ci racconta delle esperienze di Avsi che possano testimoniarlo?
Sono stato in Ruanda, nel novembre dell’anno scorso e lì un ragazzo di 18 anni è venuto a trovarmi presentandomi una lettera. In questa lettera mi ringraziava perché aveva conseguito il diploma di geometra, o l’equivalente tale nel suo paese. All’epoca del genocidio aveva 8 anni. è stato incontrato da un neuro-psichiatra infantile che avevamo mandato per aiutare gli orfani a superare il trauma dell’orrore che avevano visto e vissuto. Il medico lo trovò nei pressi di un orfanotrofio su una pianta. Si rifiutava di scendere perché non voleva avere più nulla a che fare con il mondo, quel mondo che gli aveva massacrato davanti agli occhi i suoi genitori a colpi di machete. Questo incontro ha riacceso una speranza nella sua vita che sembrava non avere più senso. In tutti questi anni una famiglia italiana attraverso un’“adozione a distanza” ha sostenuto i suoi studi fino a permettergli di ottenere il diploma. Davanti a ciò si capisce come il cambiamento del mondo sia possibile e, lo ripeto, se cambia la singola persona.
Come cambia la stima del mondo del volontario che fa il suo lavoro e come cambia il mondo grazie al lavoro del volontario? Quando si coglie realmente il significato di questa esperienza?
Il rischio di vivere in situazioni di gravissima indigenza e gravissimo bisogno è diventare cinici o essere presi dal delirio di onnipotenza: per questo è indispensabile recuperare quotidianamente il significato dell’esperienza che si sta facendo, ogni istante avere in mente che la persona “è”, oltre il suo bisogno. E se è così il mondo se ne accorge, basta vedere i volti cambiati, le opere realizzate, per riconoscere che c’è una possibilità. Purtroppo nel modo di operare, nelle linee guida degli organismi internazionali, la parola “persona” è completamente assente, viene descritta e relegata a categoria sociologica. Ovviamente non può essere così, ci vuole una continuità di presenza e di compagnia, altrimenti è lo stesso significato del lavoro a venire meno. Mi ha impressionato un bimbo messicano che, per presentarsi, invece del nome di battesimo mi ha riportato il nome del programma di una nota agenzia internazionale di cui beneficiava. Ecco, finito il programma, quel bimbo è e rimarrà sempre un mistero unico e irripetibile. Un funzionario della Banca Mondiale con noi a Salvador, accompagnato per una settimana da un autista che si chiama Guerra, ci ha scritto: «Complimenti per quanto state facendo, soprattutto ho capito che dal mio ufficio di Washington l’obiettivo di realizzare case dignitose per 250milioni di persone entro il 2015 erano solo numeri. Stando con voi e con Guerra ho capito che voi parlate di persone, che voi lavorate con le persone».
Fra le Ong internazionali con sede in Italia, Avsi può vantare uno dei più alti tassi di autofinanziamento: quasi il 50% dei fondi provengono da donatori privati. Qual è il segreto di Avsi per raccogliere tanta partecipazione?
Non so se è un segreto, ma quello che è evidente (e che vogliamo essere) è essere l’espressione di un popolo e una struttura di servizio per tutti i nostri amici in giro per il mondo, per coloro che incontrano. Cerchiamo di realizzare l’invito che il Papa ci ha rivolto qualche anno fa al Meeting di Rimini: di costruire «una civiltà che nasca dalla verità e dall’amore».
IN CAMMINO DAL 1972
Avsi è una ong impegnata con progetti di cooperazione allo sviluppo in 35 paesi poveri del mondo (Africa, America Latina, Medio Oriente ed Est Europa) e opera nei settori socio-educativo, di sviluppo urbano, tutela della salute, formazione professionale e sviluppo pmi, agricoltura ed aiuto umanitario di emergenza. I suoi progetti sul campo sono realizzati con il lavoro di circa 100 italiani espatriati, professionisti qualificati (medici, ingegneri, insegnanti, agronomi..), e oltre 600 persone indigene, anche loro tutte a contratto. Dal 1973 è riconosciuta dal Ministero degli Affari Esteri come Organizzazione non governativa di cooperazione internazionale; è accreditata dal 1996 presso il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite di New York (Ecosoc); è accreditata con Status consultivo presso Unido di Vienna (Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo dell’Industria); è inserita nella Special List delle organizzazioni non governative di Ilo a Ginevra (Organizzazione Internazionale delle Nazioni Unite per il Lavoro). Avsi è anche dotata di un Sistema di Gestione della Qualità (Sgq) secondo le norme Iso 9001: 2000 relativamente alla fase progettuale. Sono già due anni che Avsi edita il suo Bilancio Sociale: per scaricarlo e conoscere tutti i progetti sostenuti nel 2003 www.avsi.org.
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