È tornata di moda la dura verità?
Nel mezzo della pandemia di Covid-19, l’emittente statunitense Cnn ha pubblicato una pubblicità video esclusivamente grafica, e dunque simbolica, nella quale affermava che nei momenti di crisi i fatti «procurano chiarezza/correggono/uniscono/contano di più». Lo spot si concludeva con l’affermazione «facts first», i fatti vengono prima. Il video di Cnn fa eco a un’altra campagna promozionale solo grafico-simbolica del New York Times che, nel 2017, a un anno dall’elezione del presidente Donald Trump e dal suo discusso uso dell’informazione, era intitolata “Truth” e cominciava con la proposizione «the truth is hard», la verità è dura, a cui seguiva una lunga lista di proposizioni sull’uso e i meriti della verità.
Al contempo, in molti paesi del mondo, a cominciare da quelli europei, la pandemia ha provocato la creazione di comitati scientifici o tecnici che hanno affiancato con più o meno potere e successo i governi. Anche in questo caso, l’argomentazione presentata dai comitati è stata poggiata sulla riconosciuta verità scientifica, nonostante i numerosi aggiustamenti, cambiamenti, riformulazioni che essa ha subìto nel corso dei mesi. In Italia si è anche creato un comitato, voluto dal ministero della Salute, per lo smascheramento delle notizie false a proposito del Covid-19. Cominciata la vaccinazione, si è poi proposta l’introduzione di un libretto sanitario che attestasse la verità sulla situazione medica delle persone rispetto all’infezione in corso.
Si tratta solo di alcuni casi di un rinnovato interesse per il tema e il concetto della verità, che viene riscoperto, dopo anni di contestazione postmoderna, nella sua accezione ontologica, metodologica e comunicazionale. Ma quali sono le caratteristiche di questo ritorno?
La decostruzione postmodernista
Nel corso del secolo scorso, l’idea di verità ha subìto l’attacco più radicale da parte del postmodernismo. Forse in seguito agli eventi tragici delle guerre mondiali e dei totalitarismi, la filosofia europea ha elaborato un profondo attacco al tema della verità e al suo correlato: la realtà. In questo attacco molteplice, che ha coinvolto e coagulato scuole di pensiero diverse come quelle fenomenologiche, ermeneutiche, semiotiche, si è messa in discussione non solo ogni versione dell’ipotesi della verità come “corrispondenza” alla realtà – la teoria secondo la quale la verità è un attributo di proposizioni che rispecchiano il cosmo così come esso è – ma anche l’ipotesi coerentista, che vede la verità come un’emergenza di un sistema coerente di argomenti. Il postmodernismo, infatti, si contraddistingue per una sfiducia profonda verso la ragione umana e le sue pretese di raggiungere punti di vista assoluti, e dunque “veri”, in qualunque accezione del termine.
Contrariamente all’ipotesi della modernità, il postmoderno considera la pretesa di illuminare la realtà e di giungere alla verità come un’espressione di volontà di potenza mascherata da falsi miti di conoscenza e filantropia che hanno infine mostrato il loro volto truce nelle tragedie novecentesche. Da qui la contestazione di ogni “regime” di verità in nome di un’analisi più sofisticata e decostruttiva che facesse emergere forme diverse di “liberazione”: plurali, creative, originali, sempre mutevoli e in divenire. Il motto di Nietzsche, «non ci sono più fatti ma solo interpretazioni» era richiamato emblematicamente per raffigurare questa posizione in maniera icastica. […] Il New York Times e Cnn sono stati di certo due grandi protagonisti di questo sguardo al tema della verità. Che cosa è successo, dunque, per comportare un così radicale cambiamento di impostazione di questi celebri mass media come, più in generale, della cultura occidentale? E quale nuova configurazione questa visione della verità sta assumendo?
La sconfitta del mainstream
Dal punto di vista culturale, l’impostazione postmoderna si è imbattuta nelle conseguenze del proprio radicalismo che è sfociato in un nichilismo difficilmente giustificabile e armonizzabile con la vita effettiva della scienza, della società e della comunicazione. Sebbene spesso di maniera e lontane dalle sofisticate e pregevoli analisi dei suoi autori, le traduzioni del postmodernismo ammontavano all’anything goes che rende alla fine concettuale e astratta una liberazione che voleva essere concreta ed effettiva.
Dal punto di vista politico e sociale, il postmodernismo ha subìto un primo arresto dall’attacco alle Twin Towers del 2001. In quell’occasione, infatti, la traduzione sociale aperta e multiculturale del postmodernismo ha mostrato di non riuscire a contrastare le esigenze di controllo, di restrizione della libertà individuale, di notizie certificate dall’autorità del principale attore della politica e della cultura occidentale. La seconda decisiva battuta di arresto è avvenuta nell’anno 2016, con il duplice esito elettorale del referendum sulla Brexit e dell’elezione presidenziale americana che ha portato alla vittoria di Donald Trump. In entrambi i casi, come in molti episodi precedenti come la nascita di movimenti politici (per esempio, Podemos, M5s, Manif pour tous) o terroristici (per esempio, Al Qaeda, Isis), i media mainstream e, più in generale, la cultura dominante hanno dovuto constatare che attori “non autorizzati” si erano appropriati con successo delle tecniche di informazione e di manipolazione dell’informazione che erano una volta in custodia solo dei grandi network della comunicazione. La costruzione di realtà alternative e di battaglie di liberazione si era volta contro i propri creatori o custodi.
Questo secondo campanello di allarme ha certificato la necessità di un ritorno al realismo e a una versione “dura” della verità. Il realismo è tornato di moda e con esso varie forme di corrispondentismo e coerentismo riguardo alla concezione della verità. La pandemia di Covid-19, tuttavia – probabilmente il terzo grande evento politico-sociale che influisce radicalmente in questa storia – ha fatto emergere una delle possibili accezioni, che è forse quella più povera: un corrispondentismo elementare di matrice positivista. Poco sostenuto come tale da un punto di vista filosofico, ma giustificato dal generale clima realista e da alcune sofisticate riletture della filosofia moderna e contemporanea, tale trans-positivismo ripropone nuove forme di mito del dato, di metodo scientifico, di controllo comunicativo.
Lo chiamo trans-positivismo perché dal punto di vista ontologico ripropone una versione forte del mito del dato, laddove ora il dato non è più quello materiale ma quello documediale dei big data, in tutte le loro applicazioni, da quelle biologiche a quelle mediche, da quelle finanziarie a quelle sociali.
Un metodo ridotto
Il trans-positivismo sembra appoggiarsi alla scienza come proprio metodo. In quest’anno di pandemia si è assistito spesso al ricorso alla scienza come tribunale infallibile e univoco delle diatribe sociali nella complicata gestione delle quarantene e delle riaperture. Anche dal punto di vista della comunicazione, la scienza ha trovato un ruolo da protagonista nelle innumerevoli interviste a infettivologi e virologi. Le curve statistiche e le previsioni hanno occupato pagine di giornali e siti. Tuttavia, questo revival dell’apprezzamento per la scienza è stato spesso adombrato da fattori contrari. I comitati tecnico-scientifici si sono molte volte rivelati incapaci di allargare la scienza ad altri dati, quali quelli umani, economici, religiosi – risultando prigionieri di una visione ristretta dei dati. Gli scienziati esperti hanno dimostrato nelle loro diatribe che la scienza ha poco a che fare con una datità priva di interpretazioni. Le previsioni basate sulle statistiche si sono spesso dimostrate fallimentari nello stabilire le curve e i termini dei contagi.
Le contraddizioni hanno messo in luce le differenze fra il metodo scientifico presunto e quello effettivo. Nella caricatura popolare, spesso cavalcata dai media, il metodo scientifico sarebbe incentrato sul dubbio dal quale ci si muoverebbe per cumulare dati che portano in tempi brevi a verità indiscutibili. In questa versione, per quanto contraddittorie, restano insieme verità assoluta e dubbio metodico. Nella vita vera della scienza, invece, il metodo si muove dall’esperienza con i suoi portati tradizionali di conoscenze e credenze, si innesca per un dato che è contraddittorio con ciò che si è ricevuto dalla tradizione – è la differenza tra dubbio reale e dubbio di carta –, si muove attraverso un metodo abduttivo di costruzione delle ipotesi per terminare poi il proprio compito con verifiche deduttive e induttive.
In ciascuno di questi passi, la cultura, la sensibilità, la capacità di dialogo entrano in gioco tanto quanto la competenza tecnica e la conoscenza matematica. La vita effettiva della scienza sa anche che tale metodologia non comporta previsioni assolute e dati assoluti, ma un progressivo assestarsi delle conoscenze che richiede tempi molto lunghi e l’umile consapevolezza che si tratta pur sempre di nozioni parziali rispetto all’infinito procedere del reale in tutte le sue dimensioni: attuali, potenziali e necessarie.
In un fortunato convegno tenutosi a San Marino nel 2009 ebbi l’occasione di verificare questo impianto storico-teorico grazie alla contemporanea presenza di Charles Townes, l’inventore del laser e premio Nobel, John Mather, a sua volta premio Nobel per la scoperta della radiazione cosmica di fondo, Yves Coppens, scopritore dell’ominide Lucy e professore al Collège de France. Tutti e tre indicarono come sorgenti delle proprie scoperte, nell’ordine: 1) il senso della bellezza; 2) il dialogo fino alla discussione accesa; 3) la tecnologia e le conoscenze matematiche.
Controllare la comunicazione
Del corrispondentismo trans-positivista e dello scientismo ci interessa qui una delle conseguenze nel campo della comunicazione. La pretesa di questa impostazione è quella di poter controllare i fatti comunicati o i comportamenti comunicativi, in particolare sul web.
Incominciamo dal controllo dei fatti. A partire dal 2017 si sono succedute varie forme di controllo, pubbliche e private. Si è detto all’inizio della task force ministeriale per smascherare le fake news sul Covid e sui suoi antecedenti elettorali europei. È un tipo di politica che ha funzionato? No, se non in percentuale minima. I privati hanno presto abbandonato l’idea di un fact-checking sistematico, mentre nel pubblico il fact-checking si è limitato a smentire, come nel caso del Covid-19 alcune menzogne facilmente identificabili come quella che bere il vino o mettere la vaselina intorno alle narici poteva impedire l’infezione o che mangiare pasta e pane potesse favorirla. Il problema è che il fact-checking è efficace su una sola categoria di fake news, quella più ristretta che corrisponde tecnicamente ai fattoidi, ai deepfake, ai meme.
Essi non sono però che una parte minima della disinformazione che diventa pericolosa e diffusa quando si esercita come pseudo-evento, discorso incassato, opportunismo. Questi sono gli strumenti utilizzati da qualsiasi professionista e rimangono difficili da identificare come “falso”. La Regione che fa diventare un evento l’inaugurazione di un nuovo ospedale Covid, per esempio, sta trasformando un evento funzionale sanitario in propaganda politica a favore dei partiti o del partito di maggioranza in quella Regione: si tratta di uno pseudo-evento. Il presidente del Consiglio che elogia il proprio operato o attacca i propri avversari in una trasmissione intesa come informazione pubblica sta conducendo un’operazione di opportunismo, rendendo ambiguo il mittente (è il presidente di tutti o il capo di una parte?). Questa seconda fascia non è identificabile dal fact-checking eppure occupa una buona porzione della disinformazione.
Usi e abusi delle notizie
C’è una terza fascia, ancora più ampia, che riguarda la selezione quantitativa o qualitativa, la gerarchizzazione delle notizie, la contestualizzazione. Si tratta del ben noto fenomeno, che tutti compiamo, del far apparire ciò che vogliamo in una foto o in un video grazie al taglio della ripresa. Oppure di tutti i fenomeni per cui gli organizzatori o i difensori di una certa causa ne ingigantiscono le proporzioni e i detrattori la sminuiscono. O, ancora, del modo di inserire una notizia in un contesto. Se il fact-checking si applicasse a questa fascia, quasi tutti i post social dovrebbero essere segnalati. Essa sfugge pertanto a qualsiasi controllo. Il fact-checking risulta dunque impraticabile.
L’altra forma di controllo sarebbe quella dei comportamenti. In questo caso, invece di controllare la notizia, si dovrebbe insegnare a controllare la lettura della notizia e il suo uso. Si tratta del celebre pensiero critico, di cui molti propongono un insegnamento maggiore a tutti i livelli di scolarità. Qui occorre fare un ragionamento leggermente più sofisticato. Imparare a controllare le fonti, distinguere i mittenti, analizzare le piattaforme è certamente necessario e può forse aiutare a smascherare qualche fake news della seconda fascia descritta in precedenza. Tuttavia, il pensiero critico deriva da un atteggiamento filosofico non esente da colpe nella situazione attuale. Infatti, il pensiero critico nasce dall’idea di dover dubitare dell’informazione che si riceve. Il limite tra la saggia cautela e il dubbio metodico dello pseudo-metodo scientista è però difficile da determinare. Non è un caso che spesso i disseminatori di fake news siano preda di teorie complottiste che nascono da un atteggiamento di dubbio metodico. Anche le informazioni vere possono non essere verificabili o dimostrabili immediatamente. Si pensi, nel caso Covid-19, alla scelta della Regione Veneto di non seguire le linee guida dell’Oms, fidandosi di un’ipotesi non ancora verificata del virologo dell’Università di Padova, Andrea Crisanti. Spesso, nei momenti delle decisioni, non c’è tempo per il pensiero critico e un eccesso di pensiero critico porta a teorie del complotto o immobilismo.
Conclusione
La pandemia ha mostrato in modo eclatante che il plesso trans-positivismo/scientismo/controllo non funziona, generando aspettative indebite, confusione e ambiguità. La proposta di questo articolo è quella di sostituire questo plesso con quello più serio che incomincia da una concezione della scienza più vicina alla sua pratica effettiva e dunque affine a un realismo metafisico che faccia essere consapevoli di appartenere a universi di esperienza molto più ampi della nostra razionalistica capacità di presa. L’esito comunicativo è un controllo critico non meccanico che nasca da reciproci legami di fiducia piuttosto che da rigide regole. Di fatto, la possibilità critica nasce all’interno di relazioni di fiducia nelle quali siamo tutti più disposti a essere contestati o corretti. Dal punto di vista sociale e politico questo realismo ricco e relazionale si sviluppa dunque all’interno di tutti quei corpi intermedi della società come famiglie, gruppi, partiti, sindacati, associazioni, comunità che se non sono affatto garanzia meccanica di crescita di pensiero critico, ne rappresentano però sicuramente una possibilità.
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Questo testo è una versione rivista e corretta per Tempi dell’articolo “Il controllo della comunicazione: una falsa risposta?” uscito nel libro a cura di Gianmaria Palmieri, Oltre la pandemia, Editoriale scientifica, Napoli 2020
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