Due madri coraggio

Di Emanuele Boffi
20 Marzo 2003
Samar e Angelica sono solo un piccolo pezzo nel grande puzzle del mondo. Ma la loro amicizia è un esempio di come la pace dipenda dall’educazione

E alla fine c’è stata pure la sorpresa. Per i lettori di Tempi Angelica e Samar non hanno bisogno di lunghe presentazioni; fu la stessa Angelica (Tempi 24, 2002) a raccontare del loro primo incontro a Gerusalemme Est e di quell’invito: «“Mi hai chiesto di incontrarmi e ne sono stata felice e vorrei che tu fossi ospite a casa mia. Quando verrò in Galilea tu deciderai dove ci incontreremo. Gerusalemme è la città della pace e tutto è in mano di Dio!”. Alle dieci di sera Samar mi dice così, con decisione, con tono quasi risentito, con sicurezza… “Tutto è nelle mani di Dio”». Angelica, l’israeliana Angelica, che insegna teatro a ragazzi arabi e ebrei, partì dal suo kibbutz al confine fra il Libano e la Siria e raggiunse Samar, la cattolica e palestinese Samar, direttrice della casa di accoglienza per bambini palestinesi “Jilil Amal” a Betania. Ma questo fu solo l’inizio.

Noi costruiamo tombe anziché giardini
Mentre nel mondo si aspetta l’inevitabile guerra, si sono rincontrate a Catania nell’auditorium del Palazzo dei Chierici sabato 15 marzo alla conferenza “Terra Santa. Un conflitto dimenticato, una terra di pace”. Davanti a loro 300 persone cui ronzavano nelle orecchie i titoli dei Tg e le parole lette sui giornali: “guerra, odio, violenza”. E queste due donne che ripetevano “pace, amicizia, perdono”. Chi pensi ad un incontro “pacifista” si sbaglia; «noi siamo già in guerra» hanno detto presentandosi. «Da 27 anni, cioè da quando abito in Israele, – ha attaccato Angelica – vivo in una situazione di conflitto. E ora, con lo spettro dell’attacco all’Irak, riaffiorano i ricordi di come era la vita nel 1991. Nelle scuole e negli asili si insegna ai bambini come indossare le maschere antigas, quali siano i rifugi da raggiungere in caso di attacco, come ci si deve comportare quando suona la sirena dell’allarme. La guerra fa parte della nostra vita e dei nostri pensieri. Mio figlio è tornato a casa raccontando: “oggi a scuola abbiamo fatto i disegni da portare nel bunker. Così sarà meno triste”». E Samar: «la vita è difficile in Palestina. Posti di blocco, povertà, mancanza di acqua e cibo, disperazione. Tutto intorno a noi grida “vendetta”, e noi stiamo lì, nel mezzo». Poi ha letto una preghiera che riportiamo così, incompleta, come risulta dai nostri appunti imprecisi: «O Dio, io sono sicura che tu stia agendo. Noi siamo umani senza umanità. O Dio, tu vedi che noi stiamo costruendo tombe anziché giardini. Dio, noi chiediamo salvezza e perdono. Noi vogliamo essere responsabili di quel che facciamo. Un giorno i nostri figli ci chiederanno perché non siamo riusciti a vivere assieme». Le donne in Israele la mattina accompagnano i figli alla fermata e si premurano di caricarli su autobus diversi. È una possibilità in più che almeno uno la sera torni a casa. Per questo, ha spiegato Angelica, «anche per noi è difficile dire “basta” davanti ai nostri ragazzi. Ci sembra di vivere senza futuro. Io, tutte le sere, copio i file delle lettere che invio agli amici su un dischetto; se domani non ci fossi più voglio che di me rimanga qualcosa».

L’ennesimo tentativo?
La storia di Angelica e Samar è solo un piccolo tassello del grande puzzle del mondo. Ma la loro vicenda si interseca con i grandi canali della storia, con i pensieri e le azioni dei “potenti”. Proprio in questi giorni il presidente americano George W. Bush ha dichiarato che «un giorno due Stati, Israele e Palestina, vivranno a fianco in pace e sicurezza». Proprio mentre si preparano i soldati ai confini dell’Irak, Usa, Ue, Onu e Russia hanno preparato un nuovo piano di pace. «È giunto il momento di muoversi oltre gli arroccamenti», ha affermato il presidente americano e voci di consenso sono arrivate un po’ da tutti i capi di Stato (Blair, Aznar e persino Chirac e Arafat). Solo poche ore prima dell’incontro fra Angelica e Samar, il consiglio legislativo palestinese ha nominato Abu Mazen primo ministro dell’Anp. Segnali positivi cui fanno da contraltare irrigidimenti da una parte e dall’altra fino al “nessuna trattativa” degli integralisti islamici. L’ennesimo tentativo subito affondato? Può darsi. E domenica una pacifista statunitense è rimasta vittima di un incidente nel campo profughi di Rafah a Gaza. Si opponeva alla demolizione dell’abitazione di terroristi palestinesi; un bulldozer l’ha schiacciata.

Se non ritornerete bambini…
Angelica e Samar sono entrambe educatrici. Hanno a che fare con i giovani e sanno che la possibilità che cambi la situazione dipende molto da come i ragazzi verranno educati, da cosa i genitori diranno loro, come gli spiegheranno il senso dell’agire umano. Ma i ragazzi respirano l’odio che li circonda. Il quotidiano dell’Anp (Al-Hayat Al-Jadida, 6 marzo) ha raccontato della recita scolastica dei bambini palestinesi della scuola di Rafah: una sorta di “processo” dove un bambino, truccato da Bush, veniva accusato di «crimini di guerra» e condannato in quanto «responsabile della morte di tutti i bambini palestinesi». L’educazione all’odio è l’ultima parola? Samar diventa feroce se la si presenta come direttrice di un orfanotrofio: «sono tutti figli miei – ha detto – una madre ce l’hanno. Sono io e insegno loro ad amare il prossimo. Un mio ragazzo, musulmano, divenuto grande, tornò in Libano. Lì, volevano obbligarlo a uccidere dei cristiani. Si rifiutò. E si rifiutò perché aveva visto che esisteva la possibilità di vivere in pace anche coi cristiani». Angelica ha raccontato dei suoi studenti arabi e ebrei e delle conversazioni, spesso difficili, nel tentativo di insegnare loro quella disponibilità al dialogo per lei così naturale. Secondo Angelica «bisogna partire da loro, perché i bambini ragionano col ventre, col cuore, e non fissano i confini come fanno gli adulti».

Sorpresa: come si vince la guerra
«Siamo due popoli che stanno soffrendo. Ma ci sono tante Samar e tante Angeliche che vorrebbero vedere i propri figli crescere» è esplosa l’israeliana. E le ha fatto eco Samar: «io non giustifico chi uccide in nome di Dio o Allah. Io credo che la mia amicizia con Angelica possa essere un esempio. Noi siamo sorelle». E sembrava proprio così a guardarle queste due donne, così lontane eppure così vicine. Samar riflessiva, pacata e decisa; Angelica irruenta, estroversa e di una simpatia contagiosa. Come ha scritto Angelica nel suo libro, Un sì, un inizio una speranza: «C’era qualcosa che andava al di là del fatto che Samar nominasse Gesù ogni due o tre frasi e Angelica non si dimenticasse nemmeno per un attimo di essere ebrea. Samar e Angelica erano sorelle, punto e basta».
L’una orgogliosamente cattolica (è una Memores Domini, laica consacrata) l’altra orgogliosamente ebrea (fu una delle allieve predilette dal rabbino Elio Toaff). «Che possiamo fare per la pace?» ha chiesto il moderatore dell’incontro. «Il metodo di Cristo – ha risposto Samar – è l’azione, non la dimostrazione della pace. Gesù è l’esempio, pregate per i palestinesi e gli israeliani». E Angelica: «cantiamo! Noi ebrei abbiamo fatto molte guerre ma non abbiamo mai smesso di cantare, forse è per questo che ci siamo ancora». E mentre abbracciava una chitarra ha fatto cantare tutta la sala «una canzone ebraica sulla pace. Io e Samar l’abbiamo tradotta per telefono anche in arabo». Poi salutando tutti: «Le guerre si vincono coi canti, no?».

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