Don Francesco Ricci, una fede che «invade la vita»

Di Rodolfo Casadei
30 Maggio 2024
Le omelie missionarie, battagliere e antimoraliste del sacerdote scomparso 33 anni fa che viaggiò “nelle pianure sconfinate della storia” per portare ovunque la comunità cristiana
Don Francesco Ricci in Perù nel 1985
Don Francesco Ricci in Perù nel 1985 (foto da donfrancescoricci.it)

Il 33esimo anniversario della nascita al Cielo di don Francesco Ricci quasi coincide con la pubblicazione di un libro che raccoglie una selezione di sue omelie che spaziano dal 1973 al 1988: Nelle pianure sconfinate della storia, edito da San Paolo con l’introduzione a cura del vicepresidente della Cei, monsignor Erio Castellucci, e una postfazione di monsignor Livio Corazza, vescovo di Forlì, la diocesi in cui Ricci era incardinato.

Chi scorre le note biografiche sparse del sacerdote (ancora oggi, a trentatré anni dalla scomparsa, non esiste una biografia completa e definitiva) si fa l’idea di un personaggio alacre e intraprendente, instancabile viaggiatore e fondatore di comunità (di Comunione e Liberazione) in Italia e nel mondo. Creò Cseo, il primo centro studi, la prima rivista e la prima casa editrice in Italia specializzati in documentazione proveniente dai paesi dell’Europa orientale, che percorse in lungo e in largo diventando amico di personalità come il cardinale Stefan Wyszynski e come Karol Wojtyla arcivescovo di Cracovia oltre che di intellettuali, giornalisti e scrittori, fu la guida degli studenti di Cl all’università di Bologna negli anni di piombo, fu all’origine della nascita di molte comunità cielline dell’Italia centrale e di tutta la fascia adriatica dalla Romagna alla Puglia, poi di quelle dell’America latina in Argentina, Brasile e Cile, paesi alla cui vita culturale partecipò intensamente attraverso riviste e simposi. La traccia che ha lasciato ovunque è talmente duratura che alla fine dell’anno scorso, dunque trentadue anni dopo la sua morte, la Polonia lo ha insignito in forma postuma della Croce di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica.

Copertina del libro “Nelle pianure sconfinate della storia”, raccolta di omelie di don Francesco RicciPredicatore appassionato e profondo

Da quale fuoco nasceva questa attività inesauribile, questo fare che coinvolgeva intensamente la maggior parte di coloro che venivano da lui incontrati, questa continua eruzione vulcanica di iniziative, giudizi, attivazione di rapporti che si innervavano in forme comunitarie, opere, gesti, eccetera? La lettura delle 249 pagine di Nelle pianure sconfinate della storia fornisce una risposta parziale ma pertinente, nella misura in cui rivela la profondità della fede di Ricci, la sua passione missionaria, la capacità introspettiva, le sue qualità di predicatore che sa arrivare al cuore di chi ascolta, lo spessore culturale del personaggio, la lucidità dei giudizi sul momento storico.

La storia ruggisce nel sottofondo di queste omelie, disposte in un arco di tempo che va dall’utopia rivoluzionaria nelle università italiane ai referendum sul divorzio e sull’aborto, agli anni del terrorismo rosso e nero, al Papa polacco, agli euromissili, all’epopea di Solidarnosc, alla fine della Guerra fredda. In nessuna parte del libro si spiega con quali criteri siano state selezionate queste 50 omelie e non altre (da sole quelle dell’anno 1983, evidentemente giudicate più importanti, occupano 96 pagine, cioè quasi i due quinti del libro).

Una compagnia piena di memoria e presenza

Tre nuclei di capitale importanza emergono attraverso i testi del quindicennio preso in considerazione: 1) la sottolineatura della natura sacramentale della comunità cristiana; 2) la postura antimoralista; 3) la necessità dell’inveramento della fede in realtà storica.

Dice per esempio in un’omelia del 1977 parlando di san Paolo:

«Anania […] ha il compito di introdurlo in quella compagnia che sarà per lui l’avvenimento permanente della presenza di quel Cristo che aveva incontrato lungo la strada. Perciò anche noi non possiamo avere altro metodo di vita cristiana, se non quello di stare, come persone che dicono il proprio nome, nella sfera interpersonale, sociale e umana di una compagnia piena della memoria della presenza del Signore. Se ciascuno di noi ci stesse in questo modo, si verificherebbero quotidianamente le parole del Vangelo: “Nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, […]”. Non solo la nostra compagnia diverrebbe allora il luogo di questa nuova libertà della vita, ma essa stessa diverrebbe annuncio, segno della sua Presenza, Vangelo predicato al mondo, salvezza preparata agli uomini. Poiché l’autenticità di un luogo di vita cristiana, dove gli uomini che ci vivono ci stanno con tutta l’integrità della loro persona, è di per sé portatrice dell’annuncio, segno di salvezza e di speranza».

Non ci salva con le virtù, ma in una appartenenza

Formidabile l’invettiva contro il moralismo in un’omelia del marzo 1983:

«Forse noi, sotto sotto, abbiamo coltivato e stiamo coltivando l’equivoco che la novità stia nelle conseguenze dell’incontro: no! Le conseguenze dell’incontro possono essere benissimo che tu non solo continui a essere un povero diavolo, un peccatore come prima, ma lo diventi perfino di più. L’incontro [con Cristo, ndr] non vuol dire che diminuisce la quota dei tuoi peccati, o dei tuoi limiti, e aumenta la quota delle tue virtù e delle tue bravure: questa non è la novità. È una cosa assolutamente povera e spoglia, è una cosa assolutamente priva di qualunque fattore nostro, perché dice: “Se uno è in Cristo…”. È l’essere in Cristo: la novità è appartenere a Cristo. Questo è ciò che il mondo non capisce. Nella misura in cui siamo del mondo non possiamo capire che la novità sta nell’appartenere a Cristo. […]

Amici, non è, prima di tutto, questione di sorrisi, di buone maniere, di esatte virtù, di adempimenti dei doveri, non è questo: questo non salva l’uomo, questo lo lascia nello stallo della vita. Ciò che salva l’uomo è solo la coscienza di un’appartenenza a un Altro. […] Ma allora, il problema qual è? È che io riesca a mantenere su di me il giudizio che è questa appartenenza ciò che mi fa essere e mi fa essere nuovo, nient’altro. Il problema è che ci aiutiamo in questo».

Il compito dei cristiani

Tre settimane dopo l’omelia contro il moralismo, don Francesco ne pronuncia una bellissima sul compito del cristiano nel mondo:

«Nasciamo [nel battesimo, ndr] con il compito di redimere il tempo umano e di farlo diventare storia, storia della salvezza, storia della redenzione, storia del manifestarsi della gloriosa potenza di Cristo che distrugge la morte e afferma la vita. È misurandoci su questo compito che noi costruiamo la nostra dignità umana, poiché tale è la dignità che riceviamo dal battesimo e dalla fede, che ci fa partecipi e costruttori del tempo di Dio nella storia degli uomini. […] In questo diventiamo liberi: nell’assumere il compito della redenzione del tempo, affinché il tempo degli uomini diventi storia della verità, della giustizia, della libertà, del fermento che trasforma. Tale è il senso della presenza della Chiesa nella storia, il senso della presenza della comunità cristiana nella storia, della nostra comunione umana, della nostra amicizia. […]

Per questo la nostra dignità di cristiani si adempie nella redenzione del tempo, si realizza con l’unico metodo che discende dal mistero di Cristo nostro redentore: costruire luoghi umani di tempo redento, ambiti umani che manifestino l’avvenimento della redenzione, che manifestino quella vittoria. E come manifesteremo questa vittoria? Attraverso le opere del tempo redento, del tempo salvato, del tempo significato dalla fede che riconosce nel tempo la presenza del Risorto. […]

Se c’è qualcosa che non è vivibile nella sola dimensione della coscienza, questa è la fede cristiana. Essa deborda dai limiti della nostra coscienza, è più grande della nostra coscienza, invade il corpo, la carne, il tempo della nascita e il tempo della morte, invade la vita, chiede tutto il tempo dell’esistere. Per questo la vita di fede è un’inquietudine tormentosa, che non è l’inquietudine del dubbio, dell’incertezza, dell’oscurità, ma è l’inquietudine della luce che vuole illuminare le tenebre, della vita che vuole abbattere i confini della morte, dell’azione che vuole vincere l’inerzia, della verità che vuole vincere e battere la menzogna, della giustizia che vuole battere l’ingiustizia, della libertà che vuole abbattere la schiavitù».

Contro il terrorismo, contro l’aborto

Don Ricci era uomo battagliero che non aveva paura della polemica né tanto meno di schierarsi. La raccolta propone anche una famosa omelia tenuta nel corso di una Messa per le vittime dell’attentato terroristico del 2 agosto 1980, in memoria delle quali per qualche tempo celebrò l’Eucarestia ogni giorno 2 del mese a Bologna.

Alla vigilia del referendum per l’abrogazione della legge che aveva autorizzato l’aborto in Italia Ricci non ebbe alcun timore a tracciare un parallelo fra chi aveva tolto la vita a 85 persone alla stazione di Bologna e chi voleva mantenere legale l’eliminazione di migliaia di bambini non nati.

«Certo, uno Stato può anche legiferare contro il nascituro e può legiferare per il morituro, ma questo è arbitrario e nessuna legittimità può venirgli riconosciuta da una coscienza retta che riconosce i termini reali della giustizia. Questa legittimità è infranta, è il momento di gridare, di agire, perché il violento tolga le mani dalla sua vittima, sia che la violenza colpisca a morte nella follia di un’utopia assurda (come chi ha collocato la bomba del 2 agosto), sia che venga esercitata da un parlamento con i pieni crismi di un’apparente legalità formale. In certe situazioni può non esserci differenza fra il dinamitardo che, ciecamente, colpisce a morte e il consenso legislativo che, dimentico dei valori della cultura del popolo, colpisce a morte l’uomo. […]

Noi questa sera, attraverso questa liturgia, non possiamo non assumere l’impegno solenne perché cessi la violenza folle del terrorismo e cessi l’abuso della legalità contro l’uomo; perché all’uomo sia restituito il pieno diritto alla vita e nessuno ostacoli il cammino di chi nella vita viene o di chi nella vita sta».

@RodolfoCasadei

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