Domandina: cosa ne faranno le banche dei miliardi di euro prestati dalla Bce?

Di Massimo Giardina
13 Gennaio 2012
Banche senza liquidità, imprese senza ossigeno. Il pericolo di un credit crunch e le contromisure di Roma e Francoforte. Un confronto su economia e finanza tra il direttore generale di Unicredit, Roberto Nicastro, e il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli.

Anticipiamo l’articolo dal titolo “Se il denaro è un bene scarso” che apparirà sul numero 2/2012 di Tempi da domani in edicola.

Per una famiglia che deve accendere un mutuo, per un’impresa che deve scontare il castelletto o trasformare un debito di breve in lungo periodo, le condizioni si fanno sempre più preoccupanti. In primo luogo è il cosiddetto “merito creditizio” l’ostacolo da superare. Siamo passati da un’eccessiva facilità nell’approvazione delle pratiche di finanziamento da parte del sistema bancario a una situazione di vera e propria staticità. L’altro problema, che nasce nel momento in cui un soggetto riesce a ottenere la delibera al finanziamento, riguarda il costo: in molti casi i tassi d’interesse bancari sono vicini all’usura. «Hanno avuto denaro all’1 per cento e lo rivendono quando va bene con un guadagno di 7-8 punti», ha protestato Dario Di Vico dalle colonne del Corriere della Sera.

Comunque la si veda, manca liquidità nel sistema. «Il settore bancario italiano negli anni passati per supportare la crescita del paese ha iniziato a finanziare l’economia reale per un importo superiore ai depositi che poteva raccogliere dalle famiglie e dalle imprese», spiega a Tempi il direttore generale di Unicredit Roberto Nicastro. «Chi finanziava questa differenza? I finanziatori istituzionali, per la maggior parte stranieri, che acquistavano le obbligazioni di varia natura emesse dalle imprese italiane. Ad un certo punto, però, è entrata in crisi l’affidabilità dell’Italia nei confronti degli investitori stranieri. In modo particolare abbiamo assistito a una massiccia ritirata dal mercato italiano dei player americani. Ne è conseguita una difficoltà nel garantire liquidità nel sistema per i circa 350 miliardi di euro di differenza tra impieghi e depositi nonché un forte aumento di tutti gli oneri di rifinanziamento per le banche e quindi per i debitori delle banche». A fronte di questo ingente problema, la Bce ha deciso di intervenire immettendo nel sistema europeo, attraverso un meccanismo d’asta, 489 miliardi di euro al costo dell’1 per cento. Le banche italiane hanno partecipato in modo massiccio all’operazione e hanno portato nei nostri confini 116 miliardi. 

Per Nicastro i capitali introdotti dalla Bce «danno una bella mano a contromediare i livelli dei tassi d’interesse e possono innescare un circuito di ritorno di liquidità e fiducia», ma per il direttore di Unicredit occorre sfatare un mito: «Oggi su circa 1.800 miliardi di euro di funding delle banche italiane solo 116 costano l’1 per cento. La parte restante ha dei costi medi ben superiori e in crescita mano mano che scadono le vecchie emissioni obbligazionarie. In pratica tutto ciò che viene rifinanziato sul mercato lo è a tassi molto più alti, purtroppo in linea con la recente evoluzione dei Btp e del rischio paese Italia. Un effetto positivo di abbassamento dei tassi ci sarà certamente, ma ponderato al totale della raccolta bancaria».

Dal lato delle imprese, Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio, valuta positivamente i provvedimenti adottati a livello europeo, ma avverte, mostrando i dati rilevati dal proprio centro studi, che «nel terzo trimestre del 2011 oltre un terzo delle imprese (quota in aumento rispetto al trimestre precedente) si è visto accordare meno credito rispetto a quello richiesto o non se lo è visto accordare affatto. Per quanto riguarda i provvedimenti contenuti nel decreto salva-Italia, pur ritenendoli utili al ripristino di condizioni di normalità del sistema bancario, forse sarebbe stato più efficace prevedere maggiori vincoli per le banche stesse finalizzati a garantire flussi di finanziamento all’economia reale». Sangalli si riferisce anche al contenuto dell’articolo 8 della manovra, che dà la possibilità alle banche di emettere titoli di debito garantiti dallo Stato a fronte del pagamento di un tributo. Grazie a questi “collateral” le aziende di credito nostrane hanno presentato come garanzia alla Bce 40 miliardi di euro a fronte dei 116 presi in prestito.

Ma la domanda che tutti si fanno è: cosa ne faranno le banche dei capitali prestati dalla Bce? Il quesito se lo sono posti anche i deputati del Pdl Maurizio Lupi, Fabrizio Cicchitto, Luigi Casero e Massimo Corsaro, che con un’interpellanza parlamentare hanno chiesto al governo se «è a conoscenza dell’utilizzo delle banche italiane dei 116 miliardi di euro ottenuti dalla Bce e quali iniziative urgenti vorrà disporre affinché, in accordo con Banca d’Italia, sia verificato il corretto utilizzo delle risorse della Bce visto che, ad oggi, le banche non sembrano avere minimamente cambiato la tendenza, almeno in Italia». 

Alcuni economisti sospettosi accennano a un rischio: che i capitali entrati nel sistema bancario italiano vengano reinvestiti in titoli di Stato. In questo caso la Bce diventerebbe, in termini sostanziali, prestatore di ultima istanza. Le banche impiegherebbero i capitali della Bce, che pagano all’1 per cento, per investire in titoli che rendono dal 6 ad oltre il 7 per cento. Il guadagno sarebbe interessante. A tali sospetti risponde Roberto Nicastro: «Nel bene e nel male l’autorità bancaria europea ha creato un forte stigma sulle banche che comprano titoli di Stato. In realtà Unicredit ha da tempo un investimento stabile in media attorno ai 40 miliardi di titoli di Stato italiani, meno del 5 per cento del totale attivo e una presenza di titoli greci quasi nulla. Le banche italiane sono tra Scilla e Cariddi: se comprano titoli di stato italiani sono accusate di “lucrare”, se non li comprano di non supportare abbastanza il paese. Ci deve essere un equilibrio e peraltro finché non scende il rischio paese Italia la coperta rimane corta. Ci sono 800 miliardi di euro di debito pubblico italiano che sono, più o meno, in mano a operatori stranieri ed è importante che ci sia un recupero di fiducia». Rassicura ulteriormente Nicastro: «Il 38 per cento dei nostri impieghi è in Italia. I capitali raccolti in Italia li utilizziamo in Italia, e così per tutte le altre nazioni. È il nostro modus operandi. Per quanto concerne il prestito della Bce, se si guardano i mercati in cui siamo presenti, ad eccezione dell’Italia, quasi tutti hanno vissuto meglio la situazione recente. Quasi un terzo del nostro business complessivo risiede in paesi da tripla A come Germania e Austria, il resto sta nel Centro-Est Europa. Russia, Turchia e Polonia oggi stanno benone e non hanno bisogno di un’iniezione di liquidità come l’Italia. Quindi questi capitali li utilizzeremo per lo sviluppo dei nostri territori. Stiamo aumentando anche il nostro patrimonio di 7,5 miliardi proprio con questo obiettivo. «Solo il sostegno all’economia reale sostiene lo sviluppo», replica Sangalli. «In particolare, il finanziamento alle imprese genera ulteriori volumi di attività finanziaria e di servizi per le banche. Quindi, fornire finanziamenti alle imprese non vuol dire realizzare esclusivamente operazioni di credito fini a se stesse, ma significa anche generare un sistema di operazioni di pagamento e incasso attraverso le quali le imprese pagano i propri fornitori, i propri collaboratori, acquisiscono servizi, ricevono pagamenti. In definitiva, il finanziamento all’impresa è la base per l’attivazione di ulteriori fondamentali servizi bancari».
twitter: @giardser

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