Disney in Florida scopre che le battaglie woke hanno un prezzo
Il mondo politico conservatore sembra finalmente avere capito che all’offensiva culturale progressista woke si può rispondere non solo gridando alla dittatura del politicamente corretto e alla censura (a proposito, auguri a Elon Musk che è riuscito a comprare Twitter, c’è molto da fare), ma facendo appunto politica.
Gli attacchi in malafede alla legge della Florida
È il caso del governatore della Florida, il repubblicano Ron DeSantis, il quale non ha ceduto alla tempesta mediatica in malafede che gli è volata addosso (anche da quei giornali che fanno del fact-checking e dell’amore alla truth un vanto) dopo l’approvazione della legge “Parental Rights in Education” che vieta le lezioni sull’orientamento sessuale fino al terzo anno di scuola primaria. Subito ribattezzata “Don’t say gay”, come se prevedesse il divieto per i bambini con due genitori dello stesso sesso o un parente omesessuale di parlarne a scuola, la legge è stata attaccata dai Democratici, dai grandi quotidiani liberal, da Hollywood.
DeSantis è andato avanti per la sua strada nonostante l’opposizione della Disney, che in Florida ha la sua sede, gran parte dei suoi dipendenti e soprattutto gode di una sorta di statuto speciale, istituito con una legge del 1967 grazie alla quale l’azienda di Topolino gestisce privatamente l’uso del suolo, la protezione dell’ambiente, i vigili del fuoco, i servizi pubblici, più di 100 miglia di strade e molto altro, risparmiando decine di milioni di dollari l’anno.
Disney contro la legge, ma DeSantis contrattacca
Il Ceo di Disney, Bob Chapek, non aveva inizialmente preso posizione nei confronti della legge, dicendo che «le dichiarazioni aziendali fanno molto poco per cambiare i risultati o le menti, ma anzi sono spesso usate da una parte o dall’altra per dividere e infiammare ulteriormente». Messo alle strette dai propri dipendenti, che hanno inscenato proteste, minacciato boicottaggi e scioperato, Chapek si è dovuto schierare, attaccando la legge definendola una «sfida ai diritti umani fondamentali». Nelle stesse ore la presidente di Disney, Karey Burke, annunciava il desiderio di inserire nei prossimi film, serie e cartoni animati almeno il 50 per cento di personaggi Lgbtqia e appartenenti a minoranze etniche, sfidando indirettamente DeSantis.
Abituati al fatto che da anni le aziende che prendono posizioni politiche progressiste hanno pochissimi danni economici e molti osanna mediatici, alla Disney hanno pensato che sarebbe finita come sempre: applausi da giornali, social e tv di mezzo mondo per il coraggio di andare contro un politico conservatore e magari un ripensamento della legge. DeSantis però sa il fatto suo, e forte anche di un consenso popolare molto vasto proprio sulla legge contestata ha prima tenuto duro, confermando quanto detto da Chapek sull’inutilità delle prese di posizione aziendali, e poi è passato al contrattacco.
«I Ceo gestiscono gli uffici, non il paese»
La scorsa settimana i legislatori della Florida hanno deciso di abolire il Reedy Creek Improvement District, la citata legge del 1967 che nei fatti aveva trasformato la Disney in un governo autonomo all’interno dello stato. Ritorsione politica ingiusta? «Di principio non sostengo privilegi speciali per legge a un’azienda solo perché è potente», ha detto DeSantis. Non è un mistero che tra i dipendenti della Disney molti fossero contrari alla battaglia politica ingaggiata da Chapek, ma come sempre succede in questi casi non è stato permesso loro di esprimersi, e tra i clienti della casa madre di Paperino e Pippo molti sono elettori repubblicani stufi di essere usati per le guerre woke.
In attesa di vedere come andrà a finire, possiamo dire con il Wall Street Journal che questo è «un avvertimento per altre società, in particolare le Big Tech e quelle di Wall Street, che hanno sede principalmente negli stati liberali ma conducono affari ovunque. Se cercano di imporre i loro valori culturali, rischiano di perdere alleati repubblicani sulle questioni politiche che contano di più per i loro profitti, come la regolamentazione, il commercio, la tassazione, l’antitrust e il diritto del lavoro».
Quanto conviene, se è vero che alle prossime elezioni il Gop dovrebbe tornare ad avere la maggioranza? Non si pretende che i Ceo delle grandi aziende si rendano conto dei danni che un certo tipo di imperialismo culturale fa alla società, ma che siano almeno realisti. Il caso Disney è una lezione per gli amministratori delegati: conviene stare fuori da queste lotte culturali divisive. «La lezione per i partigiani politici sul posto di lavoro», conclude il WSJ, «è che i loro capi gestiscono l’ufficio, ma non gestiscono il paese». I politici non di sinistra prendano esempio da Ron DeSantis, l’illiberalismo progressista si batte anche con la politica.
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