Dire “ti amo” equivale a dire “ti amerò”, cara Aspesi

Di Rodolfo Casadei
15 Luglio 2022
La giornalista esulta per la fine del matrimonio Totti - Blasi, che conferma «la fallace promessa del per sempre». Controcanto
Francesco Totti bacia Ilary Blasi, 8 maggio 2016
Francesco Totti bacia Ilary Blasi, 8 maggio 2016

La maggior parte di coloro che hanno letto il commento di Natalia Aspesi su Repubblica sulla fine del matrimonio fra Francesco Totti e Ilary Blasi hanno pensato: «Che stronzate!». Esultare per una separazione coniugale giudicandola una buona notizia, qualificarla come “la” normalità, irridere con aria compunta «la fallace promessa del per sempre» non è esattamente il modo migliore per farsi benvolere dai lettori, anche in epoca di secolarizzazione spinta.

Non c’è bisogno di essere cattolici praticanti per far notare che milioni di matrimoni in Italia durano effettivamente per tutta la vita dei due coniugi, e che dunque il concetto di normalità della Aspesi è un tantino ideologico, in quanto non corrisponde in modo calzante alla realtà nella sua totalità.

Tanto meno occorre essere convinti del valore sacramentale del matrimonio per far notare alla scrittrice che se tutti la pensassero come lei circa «la fallace promessa del per sempre» in materia d’amore, avremmo come conseguenza un mondo senza più romanticismo, un mondo dove ci si sceglie il partner in base a criteri puramente utilitaristici, dove i rapporti umani sono ridotti alla prosaicità del contratto che regola la fruizione di servizi sessuali.

Principio di precauzione sentimentale

Avremmo il mondo della principessa di Cléves dell’omonimo romanzo di Madame de la Fayette: rimasta vedova del marito che non amava ma che rispettava e che non aveva mai tradito (e dal quale non era stata mai tradita), rinuncia ad unirsi con l’uomo di cui era da tempo innamorata, il duca di Nemours, perché dentro di sé risponde negativamente all’interrogativo: «Ma gli esseri umani conservano la loro passione in questi impegni eterni?». In anticipo di tre secoli sui tempi, ella invoca, come scrive Alain Finkielkraut, «il principio di precauzione sentimentale»: considerato che la passione amorosa prima o poi finisce, meglio non cedervi mai, anche se il cuore brucia, perché l’inevitabile delusione a venire sarà troppo dolorosa rispetto all’esperienza di appagamento vissuta nello scambio amoroso.

Per sempre e normalità

Ma dire “ti amo” equivale a dire “ti amerò”, nessuna Aspesi di questo mondo può destrutturare ciò che è significato intrinseco della dichiarazione d’amore. Così come nessun editoriale su Repubblica, nessuna riflessione filosofica, nessuna propaganda alimentata dal Potere potrà mai annientare la fenomenologia dell’innamoramento: nessuno sceglie di innamorarsi, l’innamoramento corrisponde a un essere posseduti da un’attrazione che è più forte della propria volontà, è un’esperienza di spossessamento, è essere abitati da un altro/altra.

La consapevolezza delle statistiche su separazioni e divorzi in costante ascesa, le notizie di cronaca come la rottura fra Ilary e Francesco, non possono nulla contro «questo sentimento popolare» che «nasce da meccaniche divine» (F. Battiato). Però le Aspesi, e prima di lei i Sartre, possono avvelenare i pozzi della passione amorosa evocando la precarietà dei rapporti sentimentali e insinuando l’idea che l’anelito al “per sempre” non sia intrinseco alla natura umana, ma prodotto di condizionamenti sociali. E quindi portare il discorso sulla “normalità” del fallimento matrimoniale.

A questo punto le repliche normalmente si concentrano sulla questione della distinzione fra innamoramento e amore: innamorarsi non è un atto di volontà, ma amare sì; e si può amare anche quando l’innamoramento è esaurito, o permane come una tenue traccia.

Le icone Totti-Blasi

Prima però bisogna capire bene il perché di un commento militante come quello di Natalia Aspesi (militante della secolarizzazione ateistica alla Jean-Paul Sartre) e il perché del generale sentimento di dispiacere e di delusione nell’opinione pubblica per la fine del rapporto di coppia fra il calciatore e la showgirl, contro il quale la Aspesi si scaglia. Non è innocente la commentatrice, ma non è innocente nemmeno l’opinione pubblica. Basta chiedersi quale sia la radice del dispiacere e della delusione dell’opinione pubblica per la fine del matrimonio Totti-Blasi, e questa non è certo lo sconcerto per il venir meno dei voti coniugali benedetti da Dio e per la profanazione del sacramento matrimoniale, ma piuttosto per il fallimento del succedaneo della fede religiosa: la credenza in una immutabilità, in una eternità di fattura tutta umana.

Il “per sempre” dell’amore umano che consente di continuare a credere in un mondo stabile e ammirevole, che prende il posto del “per sempre” religioso, non più creduto. I primi a tentare questa strada sono stati gli intellettuali e i poeti dell’epoca vittoriana, e non si può dire che non abbiano avuto un relativo successo, se è vero che la loro propensione a individuare nell’amore romantico il sacro che continua a dare senso all’esistenza è sopravvissuto fino ai nostri giorni, fino alla creazione delle icone Totti-Blasi, e fino alla necessità dell’impegno iconoclastico di una Aspesi.

Il retaggio della religione

Scriveva Matthew Arnold, nella famosa poesia “La spiaggia di Dover”: «Il Mare della Fede,/ era pure, un tempo, in marea alta; e attorno/ alle rive della Terra giaceva, racchiuso/ come le pieghe di una cintura risplendente./ Ma adesso altro non sento/ che la sua malinconia, un lungo ruggito/ che si ritira al respiro del vento della notte,/ giù per i vasti e spaventosi bordi/ e per i nudi ciottoli del mondo./ Ah, amore mio, restiamo fedeli/ l’uno all’altra! perché il mondo, che pare/ stendersi dinanzi a noi come una terra di sogni,/ così vario, così splendido, così nuovo,/ non possiede in realtà né gioia, né amore, né luce,/ né certezza, né pace, né sollievo nel dolore;/ E siamo qui, come in una piana che s’oscura/ sbattuti tra confusi allarmi di lotte e fughe,/ dove eserciti ignoranti si scontrano di notte».

Commenta sapientemente Roger Scruton: «In altre parole, sostituiamo l’amore di Dio con il nostro amore umano, in modo che il mondo continui ad avere significato per noi, più o meno allo stesso modo di prima, quando Dio era nel suo cielo, le ninfe nelle loro acque e le driadi nei loro boschi. (…) Arnold esemplifica il tentativo vittoriano di riparare il mondo sociale, dopo che la fede è uscita di scena, usando risorse prettamente umane. Gli individui possono perdere la loro fede all’interno del contesto di una comunità religiosa e ancora vivere nella Lebenswelt, vedendo il mondo scandito da usi e costumi, istituzioni e percezioni che sono il retaggio della religione».

Ragioni e torti della Aspesi

La Aspesi e i suoi critici hanno allo stesso tempo ragione e torto. Lei ha ragione a ricordare a tutti che l’innamoramento prima o poi finisce, loro hanno ragione a ribadire che il “per sempre” è connaturato al cuore dell’uomo e non può essere strappato dall’esperienza dell’innamoramento. Ma i secondi hanno torto a credere che l’amore umano possa avere le stesse caratteristiche dell’amore divino, in particolare la fedeltà senza falle.

La Aspesi ha torto a voler far credere che dopo la fine dell’innamoramento il rapporto è soltanto una prigione da cui è giusto evadere non appena possibile. I cattolici e le persone dotate di fede in genere non hanno aspettato gli antropologi evoluzionisti, divulgatori della teoria della “necessità biologica” dell’adulterio, per sapere che il matrimonio è un sacramento fondato sul perdono.

Il matrimonio non è una favola e non è un contratto a termine: è una storia drammatica, come drammatica è la storia della Salvezza. La Grazia non rende impeccabili; la Grazia fa sì che sia sempre possibile ricominciare ad amare dopo un tradimento (e ce ne sono di tanti tipi, non carnali ma pure molto seri) e quando l’innamoramento si è intiepidito. Che sia quindi possibile tornare a dire «Io ti amo, cioè io ti amerò».

Foto Ansa

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