
Dieci anni di primavera
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento di John Waters, editorialista di The Irish Times, dal titolo “L’eredità del Capotribù grasso. Come l’Irlanda è diventata la Tigre celtica”, per gentile concessione di Atlantide, trimestrale della Fondazione per la Sussidiarietà diretto da Giorgio Vittadini. Il numero di marzo della rivista è in uscita nelle librerie e nelle edicole col titolo “Tutti per uno, uno per tutti”.
La scorsa estate, alcuni giorni dopo la morte dell’ex primo ministro irlandese Charles Haughey, la rete televisiva nazionale irlandese Rte ha trasmesso, per pura coincidenza, un episodio di una serie in onda da molto tempo chiamata “Reeling in the Years” (letteralmente “sbobinando negli anni”). Ogni episodio del programma presenta un anno di calendario, mostrando clip di repertorio su importanti eventi di cronaca del tempo, senza commento, ma associati alla musica pop dell’epoca. L’anno illustrato in quell’episodio era il 1987, probabilmente l’anno in cui l’economia irlandese ha toccato il fondo. La maggior parte delle notizie erano negative: elevato tasso di disoccupazione, emigrazione e debito nazionale in pessimo stato, ma un’immagine mostrava il neoeletto Charles Haughey nel bel mezzo di ciò che sembrava un campo fangoso, mentre annunciava che il luogo in cui si trovava sarebbe diventato il fulcro di una nuova Irlanda. All’epoca della sua prima trasmissione, forse al telegiornale della sera in un giorno del 1987, è probabile che lo spezzone sia stato accolto con quell’estenuante scetticismo che caratterizzava allora l’atteggiamento degli irlandesi nei confronti della propria classe politica. Oggi, quasi vent’anni dopo e a pochi giorni dalla morte di questo controverso politico irlandese, esso ha acquisito un nuovo significato. Infatti la previsione fatta quel giorno da Charles Haughey si è nel frattempo avverata: il terreno fangoso nel quale si trovava è diventato oggi il Dublin’s International Financial Services Centre (Centro dei servizi finanziari internazionali di Dublino), e l’Irlanda che lo circonda è completamente differente dal paese che all’epoca aveva accolto l’impulsiva retorica di Haughey con estremo cinismo e pregiudizio.
Nei quindici anni trascorsi da quando lasciò l’incarico nel 1992, Haughey è stato al centro di un dibattito ancora più acceso di quello che ha accompagnato la sua carriera politica. A poco a poco è infatti emerso che facoltosi uomini d’affari avevano sostenuto per molti anni il suo stravagante stile di vita, donando l’equivalente di quarantacinque milioni di euro per consentirgli un tenore di vita mediceo durante i trentacinque anni della sua carriera politica. La partecipazione ai funerali di stato di Charles Haughey è stata notevolmente inferiore alle aspettative, e questo riflette il perdurante senso di indignazione da parte della popolazione per l’abuso di una carica pubblica. Tuttavia, alcuni giorni dopo, il servizio ha sottolineato l’ambiguo contributo di questo straordinario personaggio politico della recente storia irlandese, e mi ha permesso di ricordare una frase utilizzata molti anni prima da mio padre per definirlo. «Haughey – diceva – è “il Capotribù grasso”», e il popolo irlandese si era aggrappato a lui perché, in qualche modo, aveva promesso di farci diventare grassi come lui, e nel profondo volevamo crederci. Nel febbraio 1987, Haughey era stato rieletto come leader di un governo Fianna Fail (partito nazionalista irlandese, ndr) di minoranza. Aveva ereditato un’economia allo sfascio, che a detta di tutti aveva contribuito largamente a determinare. Era stato capo di governo più volte tra il 1975 e il 1982, e non era riuscito a far fronte a una crisi economica sempre più profonda, ma dopo quattro anni di una coalizione di centrosinistra che aveva raddoppiato il debito pubblico, vi era la sensazione che, nel caso l’Irlanda avesse avuto l’occasione di invertire il proprio destino economico, Haughey avrebbe potuto essere il migliore in una banda di incapaci.
Egli aveva condotto la campagna elettorale opponendosi alla tendenza prevalente di un’economia punitiva, con una piattaforma che prometteva politiche di sviluppo e nessun taglio alle spese. Una volta eletto, tuttavia, egli aveva fatto propria la saggezza economica convenzionale del periodo, introducendo una drastica serie di tagli alla spesa pubblica. L’International Financial Services Centre, la brillante idea di un giovane e affermato uomo d’affari irlandese, Dermot Desmond, che era diventato amico di Haughey a metà degli anni Ottanta, è stata forse l’unica nota positiva in un coro generale di desolazione e pessimismo.
Le carte vincenti
Ho raccontato questi avvenimenti in modo così dettagliato nella speranza di trasmettere il senso di ambivalenza che il popolo irlandese ora considera come l’origine del successo continuo di quella che da un decennio viene definita la Tigre celtica. Occorre qualcosa in più di un’analisi economica per spiegare perché l’economia irlandese, nell’arco di qualche anno soltanto, è passata dall’essere un caso disperato a ciò che la rivista The Economist definiva, nel 1997, «una stella europea che brilla di luce propria». È una storia strana e misteriosa, che sotto certi punti di vista sembra un miracolo, un fenomeno che è quasi impossibile analizzare in termini convenzionali, poiché non è possibile separarlo dai sentimenti tribali e moralistici di una cultura politica che resta radicata nella lotta del paese, durata otto secoli, per liberarsi dalle indesiderate attenzioni del suo vicino.
Alcuni ingredienti fondamentali hanno indubbiamente contribuito, negli anni Novanta, a creare condizioni estremamente favorevoli. Tra questi, il fattore più a lungo termine è rappresentato dai risultati di una serie di politiche in materia di istruzione risalenti agli anni Sessanta, quando un precedente governo Fianna Fail introdusse l’istruzione scolastica di secondo grado e il trasporto scolastico gratuiti. Insieme al boom demografico, che si sviluppò con un po’ di ritardo rispetto al resto dell’Europa, questo fattore ha dato origine a una generazione di giovani con un elevato grado di istruzione proprio nel momento giusto per raccogliere i frutti della prima ondata di una nuova e più radicale forma di globalizzazione.
Questa generazione, che nel corso degli anni Ottanta aveva lasciato in massa il paese alla ricerca di lavoro negli Stati Uniti o nel Regno Unito, negli anni Novanta ha potuto far ritorno in patria, e oggi l’Irlanda possiede il più alto livello pro capite di immigrazione in Europa, accogliendo centinaia di migliaia di europei dell’Est per soddisfare la domanda costante dell’economia irlandese di lavoratori specializzati e istruiti. All’improvvisa trasformazione dell’economia nazionale ha contribuito anche l’elevato livello dei finanziamenti dai fondi strutturali e di coesione, di cui l’Irlanda ha potuto disporre soprattutto all’inizio degli anni Novanta, fondamentali nella modernizzazione di un sistema di trasporti e di una rete stradale tra i più antiquati in Europa. Un altro importante elemento del puz-zle è stata l’introduzione, alla metà degli anni Novanta, di un’imposta sulle società (12,5 per cento) che rimane tuttora la più bassa in Europa, e che fa dell’economia irlandese un luogo estremamente attraente per le imprese americane transnazionali. Questa aliquota ridotta ha ovviamente suscitato qualche polemica da parte di alcuni partner europei, ma finora il governo irlandese è riuscito a respingere ogni tentativo di imporre un ritorno alla conformità.
Il merito dell’Europa
In un paese che si è molto agitato per questioni di etica politica, soprattutto per la vicenda di Charles Haughey, questa imposta è rimasta sorprendentemente immune da ogni controversia. È ovviamente interessante indagare gli elementi concreti dell’economia irlandese alla ricerca di un “segreto” del successo, ma la vera e completa natura della sua ripresa non è spiegabile con la semplice somma dei suoi ingredienti più evidenti. Si potrebbe affermare che siamo in presenza di una sorta di alchimia. La verità è che se l’Irlanda non era stata in grado di essere autosufficiente, e probabilmente non lo è ancora, in un mondo in cui le economie dipendevano dall’iniziativa e dalle risorse locali, si trovava tuttavia nella posizione ideale per trarre vantaggio da un mondo in cui i capitali e l’industria multinazionale si stavano spostando alla ricerca di luoghi ospitali.
L’Irlanda ha scarse risorse naturali, nessuna base industriale e, per di più, otto secoli di incisiva ingerenza da parte dell’Inghilterra hanno fornito scarso nutrimento all’iniziativa e all’imprenditorialità locali. Fino a circa un decennio fa, l’economia irlandese si basava quasi interamente sull’agricoltura e sul turismo, ed entrambi questi settori lottavano per sopravvivere. Sebbene da un decennio sia una delle economie che registra i migliori risultati al mondo, l’economia irlandese indigena – al contrario dell’economia “infiltrata” che comprende capitale e industria transnazionali – continua a registrare livelli normali di produttività e di crescita.
È ospitando un’attività internazionale nomade che l’Irlanda è riuscita a trarre vantaggio dalle proprie capacità e risorse umane. Da lungo tempo gli irlandesi, come lavoratori, sono ammirati in tutto il mondo e, come emigranti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, si sono guadagnati una reputazione invidiabile per la loro energia e dedizione. Lo sviluppo dell’economia globale e la concomitante disponibilità di una generazione di giovani irlandesi con un elevato grado di istruzione hanno fatto sì che, per la prima volta, fosse possibile utilizzare queste qualità nel proprio paese. Per un po’ di tempo sono state sollevate critiche a questo tipo di economia, evidenziando i rischi connessi a un così alto grado di dipendenza da attività straniere, che potrebbero lasciare il paese se si presentassero altrove condizioni più favorevoli. Vi sono però pochi segnali effettivi che questo stia accadendo. L’Irlanda non dipende da un’economia a basso costo: i costi, compresi quelli di manodopera, sono tra i più alti in Europa. Il boom dell’edilizia dello scorso decennio ha per esempio visto il prezzo di un’abitazione media aumentare di circa il 500 per cento.
Verso un nuovo tipo di imprenditori
Le tipologie di settori che l’economia della Tigre celtica ha attratto – soprattutto elettronica, industria farmaceutica e servizi finanziari – tendono a essere quelle in cui il costo della manodopera rappresenta un fattore marginale. Questo ha garantito all’economia irlandese una notevole protezione dalle pressioni della concorrenza dell’Europa orientale e di altri paesi.
L’economia è sostanzialmente una questione di fiducia, e questo è forse il cambiamento più importante avvenuto in Irlanda. Come società postcoloniale, la vecchia Irlanda non aveva assolutamente il senso delle proprie forze e dei propri talenti. L’idea che l’Irlanda sarebbe diventata una delle economie di maggior successo a livello mondiale sarebbe sembrata un decennio fa una barzelletta di pessimo gusto. E tuttavia questo è ciò che si è verificato. La fiducia genera fiducia e, senza dubbio, si sta ora creando la possibilità che anche l’economia indigena acquisisca la medesima forza e capacità delle componenti transnazionali in Irlanda. In ultima istanza, nel prossimo decennio questo potrebbe assicurare il completamento della trasformazione dell’economia irlandese, via via che una nuova generazione di imprenditori comincerà a creare un modello di sviluppo economico più adeguato alla personalità e alla realtà nazionale.
Ma qualcosa doveva succedere per creare l’iniziale senso di ottimismo e vi è chi – pochi a dire il vero e con moderazione – continua ad additare il contributo di Charles Haughey al cambiamento di rotta dell’economia. Perfino gli aspetti della sua vita politica ora ritenuti corrotti – comprese le ingenti somme ricevute da uomini d’affari per finanziare il suo pretenzioso stile di vita – possono aver giocato un ruolo in questa trasformazione. Perché, a prescindere dal modo in cui ha acquisito la propria ricchezza, in retrospettiva appare innegabile che il Capotribù grasso abbia mantenuto la propria promessa di far diventare il suo popolo grasso come lui.
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