
Der Untergang: un Hitler “umanizzato”?
Francoforte – Difficile definire con precisione quali sensazioni si provino uscendo dal cinema dopo aver visto “Der Untergang” (La caduta), il film dedicato agli ultimi 12 giorni di vita di Adolf Hitler. Il film, diretto da Bernd Eichinger, non a caso ha scosso profondamente i tedeschi. Il film è principalmente ambientato all’interno del bunker berlinese in cui il Fuehrer si trova assieme ai suoi più stretti collaboratori. Le scene si basano sulle informazioni fornite dalla giovanissima segretaria personale di Hitler, Traudl Junge, all’epoca dei fatti ventiduenne, e dai dati raccolti dal celebre storico Joachim Fest. Il risultato è un film dalla recitazione di grande livello. Assolutamente calato nel ruolo del Fuehrer è l’attore Bruno Ganz, che ha fatto un supremo sforzo interpretativo. L’aspetto più rimarchevole della sua recitazione molto vivida è la lingua. Come noto, infatti, Hitler era austriaco e aveva una parlata caratterizzata da un fortissimo accento a metà strada tra l’austriaco del nord e il bavarese del sud. Una lingua certo non facile da imitare, specialmente per uno svizzero come Ganz. Ganz si è esercitato a lungo, studiando addirittura un inedito spezzone di monologo hitleriano di 7 minuti di durata, registrato di nascosto da un diplomatico finlandese. “Der Untergang” ritrae un Fuehrer molto lontano dai modelli cinematografici cui eravamo abituati. Non si tratta ovviamente del Grande Dittatore à la Charlie Chaplin, ma nemmeno del dittatore incarnato da Alec Guinness o Anthony Hopkins. L’Hitler di Eichinger è un uomo capace fino all’ultimo di mandare al massacro giovanissimi berlinesi contro l’armata rossa, capace di farfugliare di inesistenti armate che avrebbero spazzato via i russi. Ma è anche capace di disperarsi e di mostrarsi gentile con le segretarie, di congedare i suoi collaboratori. Impressionante la scena del suo bacio a Eva Braun, quando costei si rifiuta di fuggire e rimane al suo fianco. La scena è talmente realistica che quando le labbra dei due amanti si separano, per un brevissimo istante un filamento di saliva si tende e poi si spezza.
Nel film manca anche qualsivoglia riferimento allo sterminio degli ebrei, manca la ragione, insomma, che di quest’uomo ha fatto un essere non umano. Agli ebrei sono fatti riferimenti solo en passant, e anzi c’è anche un fugace riferimento alle origini semitiche del Fuehrer stesso, quando nello sposare Eva Braun, non è in grado di portare in dote puro sangue ariano. Da un punto di vista storiografico il film si presenta peraltro come estremamente accurato e non lascia nulla al caso. Quello che colpisce è come, a fronte della rappresentazione così realistica, per nulla idealtipica, di Adolf Hitler, gli altri personaggi vengano invece stilizzati. Come Magda Goebbels, che è la perversione estrema del nazionalsocialismo. Quando il Fuehrer la insignisce di un’altissima onoreficenza, è «la donna più felice della Germania». Quando si rende conto della fine incombente, avvelena i sei figli perché «troppo buoni per crescere in un mondo senza nazionalsocialismo». O come Eva Braun, che appare quanto mai lontana dalle vicende che la circondano, chiusa nella torre d’avorio del suo amore incondizionato per Adolf Hitler. Immortalata dal regista nel momento in cui verga la lettera d’addio alla sorella e non tralascia di dettagliare la sorte dei suoi gioielli, la Braun è lontanissima dall’immagine del Fuehrer. Il film è stato costruito completamente intorno alla figura di Adolf Hitler, e, dal punto di vista storiografico, il film è attendibile ed equilibrato. Lascerà delusi coloro che si aspettavano la rappresentazione del “male assoluto”, per dirla con Elie Wiesel. Perché questo film è una demitizzazione del mito, è una fuga dall’astratto e assoluto, categorie che per il regista non appartengono a questo mondo.
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