Decreto Fare e altre opere. Visita con il ministro Lupi nel cantiere della ripresa
Il nome è impegnativo: decreto Fare. Fare che cosa? Soprattutto infrastrutture. Sono ben 3.300 i milioni di euro di competenza del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti nel provvedimento che, dopo le proroghe dell’ecobonus e delle detrazioni fiscali per ristrutturazioni, mobili ed elettrodomestici, ha un impatto per l’economia italiana. È poi giunto il decreto sulle agevolazioni per chi assume i giovani (18 mesi a zero contributi), ma è dall’applicazione del decreto Fare che si possono vedere in atto, e non solo nell’effetto annuncio, le prime conseguenze concrete dell’azione del governo di larghe intese.
Analizziamo la parte del decreto che riguarda le Infrastrutture. Il ministro Maurizio Lupi, sin dal suo insediamento, ha detto che «i soldi spesi in infrastrutture non vanno considerati tanto una spesa, quanto un investimento che può permettere se non di far ripartire l’economia quanto meno di non essere colti impreparati quando la ripresa arriverà». È un concetto che ha ribadito in tutte le audizioni parlamentari, alla Camera e al Senato, in cui è stato impegnato nel suo inizio di mandato: «Abbiamo un gap infrastrutturale e logistico nei confronti degli altri paesi europei quantificabile in un meno 8 per cento, possiamo paradossalmente usare della crisi e della stasi dell’economia per rimetterci al passo con gli altri paesi, o almeno di accorciare il divario». La costruzione di Infrastrutture come l’alta velocità sulla Torino-Lione, che fa parte del corridoio europeo Madrid-Kiev, o della galleria ferroviaria del Brennero, che a sua volta fa parte di un altro corridoio europeo, quella da Helsinki a La Valletta, ha questo significato strategico.
Ma non esistono solo le grandi opere, questa la filosofia di fondo, a quanto è dato di capire, di cui il ministro Lupi ha voluto informare il decreto Fare. L’economia e l’occupazione si nutrono anche di piccole e medie opere, «di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria del territorio» di cui la nostra rete infrastrutturale ha assoluto bisogno. Il passeggero che in tre ore arriva da Milano a Roma poi non può impiegarne due per raggiungere un capoluogo di provincia del Lazio dove ha un appuntamento di lavoro. Le merci che arrivano nei nostri porti devono poter raggiungere gli interporti e di lì collegarsi alla rete ferroviaria o autostradale. Il turista o l’uomo d’affari o le merci che arrivano nei nostri aeroporti hanno la stessa esigenza, e lo stesso problema. «Centrale e decisiva diventa allora la questione dei “nodi”», dice Lupi. «Abbiamo buone infrastrutture, e ne avremo di migliori, ma dobbiamo farle dialogare tra di loro». Questo comporta tutta una serie di interventi di ammodernamento delle nostre reti infrastrutturali di cui il decreto Fare costituisce un primo passo.
Dove trovare i soldi
I 3 miliardi e 300 milioni circa stanziati nel decreto sono sostanzialmente divisi in due capitoli: un fondo di circa 2 miliardi di euro (2.069 milioni) destinato alle grandi opere, 1.300 milioni per interventi di manutenzione straordinaria e ordinaria del territorio.
Partiamo dal fondo di due miliardi. Serve a finanziare un certo numero di grandi opere come ad esempio la Tangenziale esterna Est di Milano (essenziale per l’Expo del 2015), il prolungamento della linea 1 della metropolitana di Napoli sino all’aeroporto di Capodichino, la linea ferroviaria di alta velocità tra Napoli e Bari, il Quadrilatero autostradale tra Umbria e Marche e altre ancora. L’unica condizione per l’erogazione dei fondi è l’immediata cantierabilità di questo opere. Detto in soldoni: aprite i cantieri entro il 2013 e il ministero paga. Un editoriale del Sole 24 Ore l’ha definita «una scelta coraggiosa», perché per rinvenire queste risorse il ministro Lupi non ha battuto cassa al ministero dell’Economia, ma ha spulciato all’interno di finanziamenti già assegnati al ministero per le grandi opere: «Si tratta del passaggio dalla competenza alla cassa. Noi politici siamo abituati a farci belli con gli annunci (“Ho ottenuto tot miliardi per la tal opera”) e poi le opere non partono, i cantieri non aprono, non c’è avanzamento dei lavori. Fatte salve le competenze di certi fondi già assegnati, ma che potranno essere spesi solo fra un anno o due, li abbiamo spostati temporaneamente su opere che possono partire immediatamente, creando occupazione adesso e non domani».
La decisione è stata oggetto di critiche e ha alimentato polemiche da parte di alcune Regioni che si son sentite defraudate, ad esempio la Liguria che ha protestato per il “definanziamento” del “Terzo Valico” della linea ferroviaria Milano-Genova. Nessun definanziamento, ha risposto Lupi: «Ho chiarito fin dall’inizio che i soldi presi a prestito da certe opere, non solo dal Terzo Valico, anche dalla Torino-Lione – e sfido chiunque a dire che io non sono un sostenitore della Tav in Val di Susa – verranno riassegnati, come d’altronde già successo per il Terzo Valico con un decreto legge approvato alla fine di giugno».
Al ministero delle Infrastrutture qualcuno fa notare anche il carattere “etico” di questa scelta: «Non ha senso in un momento di crisi come questo tenere fermi e inutilizzati soldi che verranno spesi tra un anno, quando possono essere immediatamente utilizzati con tutte le positive conseguenze economiche e occupazionali della loro messa in circolo».
Il ministro Lupi ha voluto rispondere a queste critiche anche con qualche appunto polemico: «Chi rivendica la strategicità del Terzo Valico, che io condivido, perché collegare in modo più efficace Genova e il suo porto con Milano e con il resto dell’Europa è vitale per quella città e per l’economia del paese, deve però rendere ragione del perché nei due anni dall’apertura dei cantieri del primo lotto costruttivo di quella rete infrastrutturale, dal 2010 a oggi, con una disponibilità di 770 milioni di euro ne sono stati spesi solo 140 per la progettazione e 34 per lo stato di avanzamento lavori; e perché per il secondo lotto, dal settembre 2012, con una disponibilità di 860 milioni a oggi ne sono stati spesi zero». Come dire: finanziare un’opera non basta, bisogna farla.
A proposito di grandi opere, il decreto contiene un’altra novità, che riguarda le infrastrutture finanziate da soggetti privati. In particolare, il decreto interviene sulla “defiscalizzazione” delle opere da realizzare in project financing, senza contributi pubblici, abbassando da 500 milioni a 200 milioni di euro l’importo minimo per accedere a questa agevolazione. Pertanto, in via sperimentale, la realizzazione, con contratti di partenariato pubblico-privato, di infrastrutture strategiche di importo superiore ai 200 milioni di euro che non prevedono contributi pubblici a fondo perduto, permette al titolare del contratto di fruire di un credito di imposta sino al 50 per cento del costo dell’investimento per Ires e Irap e dell’esenzione dal pagamento del canone di concessione, nella misura necessaria al raggiungimento dell’equilibrio del piano economico-finanziario.
Sull’approvazione di questa norma non sono mancati attriti. Non all’interno del governo, che l’ha sostenuta, ma con una parte della burocrazia amministrativa dello Stato che si è opposta, salvo arrendersi di fronte alle ragioni e alla fermezza della decisione politica.
Le piccole opere
Il secondo capitolo in cui è articolato l’intervento “fattivo” del ministero delle Infrastrutture dispone di circa 1 miliardo e 300 milioni di euro. Sono soldi, anche questi da usare subito, per interventi di ammodernamento e di adeguamento agli standard europei della nostra rete ferroviaria. Si tratta di 635 milioni di euro. Solo per fare un esempio: bisogna modificare la sagoma di alcune gallerie per permettere il passaggio di vagoni merci di una certa dimensione, eliminando così “colli di bottiglia” che penalizzano la rete e i territori che dovrebbe servire.
Una tranche di 300 milioni di euro serve a finanziare piccoli progetti di manutenzione (dai 2 ai 5 milioni di euro) della rete stradale: ponti, viadotti e gallerie.
100 milioni di euro, sempre per opere da attivare entro la fine del 2013, sono invece destinati ai piccoli comuni, quelli con meno di 5 mila abitanti. Il progetto è stato definito dei “6 mila campanili”, tanti possono essere i comuni interessati, e prevede la collaborazione dell’Anci (l’Associazione dei comuni italiani) per la stesura del regolamento e l’individuazione di questi micro-interventi (da 500 mila a 1 milione di euro) che, spiega Lupi, «aiutano a rimettere in moto l’economia locale, dando lavoro alle piccole e medie imprese insediate sul territorio». Il fondo è ovviamente rifinanziabile negli anni a venire.
Un’ultima voce riguarda l’edilizia scolastica: 300 milioni di euro per la messa in sicurezza delle nostre scuole, una carenza che ha avuto nel recente passato risvolti drammatici. Si è svolto nel mese scorso a Torino il processo di appello per crollo del liceo Darwin di Rivoli del 22 novembre 2008, in cui perse la vita il 17enne Vito Scafidi, un funzionario della Provincia di Torino è stato condannato a quattro anni di reclusione.
Trentamila posti di lavoro
Il calcolo prudenziale del ministero, che somma i posti di lavoro diretti e indiretti di ogni singola opera, prevede una ricaduta occupazionale di 30 mila unità. Statistiche Istat più genericamente parlano di 10 mila posti di lavoro per ogni miliardo impiegato. Le due previsioni sostanzialmente convergono.
La sfida ulteriore, oltre alla realizzazione concreta di queste opere su cui il ministro Lupi verrà giudicato, è ottenere che parte di esse (le grandi infrastrutture trans-europee cofinanziate dalla Unione Europea) rientri nella quota di flessibilità sul bilancio dello Stato che il presidente della Commissione europea ha annunciato di voler accordare ai paesi usciti dalla procedura di infrazione, come, appunto, l’Italia. I criteri e i paletti per accedere a questa opportunità sono contenuti in una lettera che il commissario europeo per gli Affari economici Olli Rehn ha inviato ai ministri delle Finanze dei paesi dell’Unione. Un primo approssimativo calcolo ha spinto qualcuno a parlare di circa 7 miliardi di euro di ulteriore spesa concessi all’Italia rispetto all’obiettivo del 2,4 per cento di rapporto deficit/Pil per il 2014, tanto varrebbe quello 0,5 per cento spendibile restando comunque sotto la soglia del 3 per cento fissata dal Trattato di Maastricht.
Il ministro Lupi non vuole azzardare previsioni, per ora constata che finalmente «anche l’Europa si è accorta che di solo rigore si può morire. Che occorre investire, che quella in investimenti finalizzati alla crescita non è spesa inutile ma spesa buona. Abbiamo fatto sacrifici come paese per rispettare gli impegni assunti con l’Unione Europea, soprattutto abbiamo chiesto sacrifici agli italiani. Non devono restare sacrifici inutili».
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