Timor, palestinesi, Caucaso:
la cattiva coscienza del mondo Gli avvenimenti politici che si sono presentati sulla scena internazionale a cavallo fra la prima e la seconda settimana di settembre rappresentano altrettante amare lezioni sulle difficoltà proibitive che incontrano i tentativi di soluzione di conflitti profondamente radicati allorché i processi di pace non tengono conto di tutti i fattori in gioco. Le violenze post-referendarie a Timor est, i travagli che accompagnano l’accordo israelo-palestinese e il riesplodere dei conflitti caucasici rispondono alla logica suddetta.
Timor: audace colpo della solita Onu L’impunita caccia all’uomo che le milizie filo-indonesiane hanno scatenato all’indomani del referendum che ha sancito a stragrande maggioranza la volontà indipendentista della popolazione (78,5 per cento di favorevoli) testimonia il micidiale grado di impreparazione della comunità internazionale, e delle Nazioni Unite in particolare. Non è la prima volta che una delle parti in causa non accetta il responso delle urne di un processo elettorale sotto egida Onu: era già successo in Angola nel 1993, e il risultato era stato la ripresa di una guerra civile che proprio in questi giorni conosce una fase particolarmente sanguinosa. Eppure né le Nazioni Unite, né i paesi interessati più da vicino alla vicenda (Australia e Portogallo) hanno preso precauzioni in vista dell’eventualità di una non accettazione dei risultati del voto, per esempio un impegno formale dell’esercito indonesiano a intervenire per reprimere le violenze, oppure un meccanismo che comportasse automaticamente l’intervento di una forza armata internazionale nel caso di una grave crisi post-voto. Parrebbe quasi una trappola ordita da governo e militari indonesiani: il governo ha fatto sapere che non autorizzerà nessun intervento di caschi blu fino a quando il parlamento nazionale non avrà ratificato i risultati del referendum, un’operazione che richiederà settimane. Nel frattempo i massacri potrebbero causare la reazione del Falintil, la poco numerosa guerriglia indipendentista attualmente trincerata sulle montagne. A quel punto Giacarta avrebbe un buon pretesto per dichiarare lo stato di emergenza, sospendere gli effetti del referendum e reprimere ancora una volta i timoresi. Con la complicità obiettiva della comunità internazionale.
Israeliani e palestinesi ostaggio degli uomini-bomba L’inchiostro non si era ancora seccato sui documenti con le firme dei negoziatori israeliani e palestinesi a Sharm el-Sheik che già due autobombe esplodevano a Tiberiade ed Haifa e due ministri si dimettevano dal governo di Ehud Barak. Sharm el-Sheik è sicuramente un’altra preziosa pietruzza aggiunta al mosaico del processo di pace in Medio Oriente, e la scadenza del 13 settembre 2000 fissata come data per la nascita di uno Stato palestinese riconosciuto da Israele comincia ad apparire come un obiettivo realistico. E tuttavia la fine del cinquantennale conflitto fra arabi ed ebrei e una pacifica convivenza arabo-palestinese continuano ad apparire méte lontane. Non soltanto perché Hamas continua a dimostrare un’assoluta intransigenza che si traduce in rinnovate campagne terroristiche, i coloni ebrei non perdono occasione per manifestare la loro indisponibilità all’abbandono degli insediamenti in Cisgior-dania e nel Golan che un accordo di pace definitivo imporrebbe loro, la Siria alza ogni giorno il prezzo della sua eventuale adesione al nuovo equilibrio regionale e la questione dello statuto definitivo di Gerusalemme resta una ferita aperta. Ma anche perché cinquant’anni di inimicizia, lutti e rancore hanno prodotto centinaia di migliaia di storie personali intrise di sofferenza e quindi di sete di vendetta, il più potente innesco per qualsiasi genere di esplosivo. Per disinnescare queste bombe umane non basteranno le arti della politica e della diplomazia.
Caucaso nero (petrolio), rosso (sangue) e verde (islam) Aveva e ha ragione Zbigniew Brzezinski, già segretario di Stato americano al tempo della presidenza Carter: le regioni caucasiche sono “i Balcani dell’Eurasia” (The Grand Chessboard, Basic Books 1997). E l’Eurasia, la grande area geo-politica che si stende fra Brest e Vladivostok, è lo spazio che conoscerà le maggiori turbolenze del XXI secolo. In essa infatti si incontrano una serie di condizioni che puntano in direzione dell’instabilità: il processo di deliquiscenza e di criminalizzazione insieme del potere russo, la fragilità delle repubbliche post-sovietiche a maggioranza musulmana, l’attrito fra civiltà diverse e, soprattutto, la scoperta dei giacimenti petroliferi più estesi del mondo compongono una miscela esplosiva che può essere facilmente sfruttata dall’integralismo islamico, come dimostrano gli ultimi fatti del Daghestan e della Cecenia. Solo adesso cominciamo a renderci conto di cosa potrebbe significare la perdita del controllo di Mosca su queste bellicose regioni, cruciali per la crescita economica nel XXI secolo. A meno che non si popolarizzi qualche forma di energia diversa dagli idrocarburi.