
Dagli Appennini all’Afghanistan siamo tutti soldati di una guerra necessaria
Mentre in Italia si chiudevano i seggi elettorali, prima in Libano, poi in Afghanistan, i nostri soldati soffrivano gli attacchi dei nemici. Di qua un’idelogia moralista atea, questa grigia tigna che rinsecchisce il verde albero della vita e lo trasforma nel tronco morto di un’utopia vendicativa. Di là un’ideologia moralista religiosa, questo tremendo odio alla vita, che produce il più terrificante spettacolo di distruzione che ci sia.
Cos’è che può unirci e darci speranza nella lotta tra noi, qui in Italia, impegnati nell’antipolitica e antiumanità che tutto denuncia e tutti calunnia, e tra noi e loro, italiani nella morsa dell’antipolitica e antiumanità della guerra? Può unirci e farci sperare solo uno sguardo fisso su tutti coloro che, consapevoli di ciò che essi sono a Herat piuttosto che a Milano (come è accaduto nei giorni scorsi, gente vista a festeggiare in una piazza dall’autentica nostalgia di unità popolare o a volantinare davanti a chiese dove non di rado si è invece documentata non una mentalità cristiana ma livore da moralismo antipopolare), ci testimoniano che il tempo è una lotta per la verità della vita, non una corsa verso il nulla.
San Tommaso diceva che la vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione. Consiste. Cioè, non è in balìa dell’opinione corrente. Affetto. Cioè, dono di sé all’altro. Per il resto, nella vita si vince e si perde. A Herat come a Milano. Posti dove pare vincano più le belle bandiere che la considerazione attenta e spassionata di fatti e ragioni. Comunque sia, l’uomo che consiste non aspetta unità e speranza dal ritiro delle truppe o dal tramonto di un Cavaliere. L’uomo che consiste unisce e porta la speranza. Cioé, vive.
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