
Da Saffo alla Schiffer (Claudia, Sulpicia e le altre)
“Il talento femminile è un talento innato, una disposizione originaria, un assoluto virtuosismo nel conferire al finito un senso. La donna concilia l’uomo e se stessa col mondo, è in armonia con l’esistenza in una misura che l’uomo non conosce; poiché la donna spiega la finitezza, essa è la vita profonda dell’uomo: una vita tranquilla e nascosta, come è sempre la vita delle radici”. Così si esprimeva Cesare Pavese, dando voce alla sua nostalgia. Ma il talento della donna non è solo quello che si esprime nella compagnia all’uomo. Specie oggi, all’epoca in cui femminilità è sinonimo di autonomia ed emancipazione. Le esperienze poetiche su cui qui di seguito ci soffermiamo hanno probabilmente poco a che vedere con la stretta cronaca femminil-femminista. Ma forse hanno una loro attualità nel disvelare le radici perenni di quel talento che ha acceso la letteratura occidentale. All’alba della poesia greca si trova infatti una donna:
Saffo “O coronata di viole, divina dolce ridente Saffo”.
Così la invoca il poeta Alceo, primo ad averne avvertito il fascino. Quasimodo ne ha tradotto alcune liriche, in una lingua che tenta una approssimazione poetica con il testo originario e ne restituisce l’intima ed essenziale sintassi.
Un suo idillio evoca un plenilunio:
“Gli astri d’intorno alla leggiadra luna nascondono l’immagine lucente, quando piena più risplende, bianca sopra la terra”.
Il tocco di Saffo restituisce lo sguardo greco sul mondo, carico di ammirato stupore e come ammaliato da una segreta presenza: è un’atmosfera di sogno, sospesa tra luce e oscurità, tutta intenta a una parola che leghi le cose al loro svelarsi alla percezione umana. È in fondo questa la radice della religiosità, in ogni tempo e sotto ogni cielo.
Sulpicia La voce femminile nella letteratura latina è limitata a quella di Sulpicia, nipote di Messalla, colui che diede vita a un importante circolo culturale al tempo di Augusto. Sulpicia (ma non è affatto certo che sia lei l’autrice, anche se i critici sono divisi sull’attribuzione) canta l’amore per il giovane Cerinto in uno scarno canzoniere di cinque brevi elegie e sei epigrammi, conservato a noi nel terzo libro delle elegie di Tibullo, uno dei poeti che partecipavano al circolo di Messalla.
I versi di Sulpicia sono pregevoli per l’intensità dei sentimenti, là dove invece domina spesso il solo gioco letterario, e per l’eleganza della forma.
“Ch’io non sia più, o luce mia, la tua ardente passione, come mi sembra di essere stata in questi ultimi giorni, se ho mai commesso, stolta, in tutta la mia giovinezza, qualcosa di cui mi confessi più pentita di questo, d’averti lasciato solo, la notte passata, per dissimulare l’ardore del mio desiderio”.
I sentimenti si intrecciano e tuttavia sono ben riconoscibili: la memoria degli atti d’amore, il pentimento di aver lasciato solo l’amante, il desiderio di celargli la propria passione.
Il testo latino dell’ultimo verso, in particolare, è costruito ad arte:
“ardorem cupiens dissimulare meum”.
Si tratta di un pentametro, in cui la cesura centrale sembra quasi celare un segreto sospiro di rimpianto, mentre l’ampio iperbato abbraccia l’intero verso nell’impeto dell’ardore della poetessa per il suo uomo.
Ildegarda di Bingen Il medioevo cristiano non ci ha dato, nei suoi primi secoli, l’apporto della voce poetica femminile; anzi, è stato giustamente osservato che in tutta la poesia mediolatina è addirittura assente la figura della donna, tranne quella di Maria, alla quale è rivolta ogni lode.
Ma il XII secolo rompe questo silenzio con la voce di Ildegarda di Bingen. Nata all’alba del secolo, ella ebbe fin da bambina il dono delle visioni, fu monaca e poi badessa di importanti monasteri nell’area tedesca dell’impero. Si dedicò alla scrittura di opere teologiche, mediche, di storia naturale, ma non trascurò la musica e la poesia. Ecco una sua antifona, la n. 11, su Maria:
“Oh che grande miracolo è questo, che in un oscuro corpo femminile è entrato un re.
Fu opera di Dio, che innalza l’umiltà sopra ogni cosa.
E, oh, che grande felicità c’è
in questo corpo, perché il peccato, che sgorgò da una donna, quest’altra donna poi lo deterse, e costruì il profumo dolcissimo delle virtù, e più adornò il cielo di quanto prima avesse turbato la terra”.
L’antifona è tutta giocata sull’antitesi e raggiunge quasi il paradosso nel verso 5, che riecheggia l’”exaltavit humiles” del “Magnificat”. Tradizionale la ripresa del paragone tra Eva e Maria, ma l’ultimo verso quasi identifica le due donne. Maria è cantata nella sua concretezza fisica – due volte in un testo così breve ricorre la parola “corpo” – e in lei è esaltata l’incarnazione del Verbo. In quell’accenno stupendo all’oscurità e alla felicità del corpo femminile che ha ospitato il re si può cogliere lo stesso realismo che fa cantare nel versetto del “Te Deum”: “non horruisti Virginis uterum” (non hai avuto orrore, Cristo, delle viscere di una vergine).
Compiuta Donzella di Firenze Ancora una dibattuta figura femminile nel Duecento italiano, a ridosso dalla grande stagione dello Stilnovo, la Compiuta Donzella di Firenze, autrice di tre sonetti, ma così misteriosa da aver suggerito ai critici addirittura di essere un’invenzione letteraria. Non di questo parere tuttavia fu De Sanctis, al quale piacque “la perfetta semplicità del sonetto femminile, con movenza più vivace, più immediata e più naturale” e neppure Contini, benchè quest’ultimo propenda per ritenere che il nome sia uno pseudonimo e che non si possa discorrere seriamente nei sonetti di riflessi autobiografici. La più famosa delle liriche della Compiuta Donzella è una fresca immagine della primavera:
“A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora acresce gioia a tutti fin’amanti:
vann insieme a li giardini alora che gli auscelletti fanno dolzi canti;
la franca gente tutta s’inamora, e di servir ciascun tragges’inanti, ed ogni damigella in gioia dimora;
a me, n’abondan marrimenti e pianti.
Ca lo mio padre m’ha messa ‘n errore, e tenemi sovente in forte doglia:
donar mi vole a mia forza segnore, ed io di ciò non ha disio né voglia, e ‘n gran tormento vivo a tutte l’ore;
però non mi ralegra fior né foglia”.
Bella, al v. 7, la notazione tipicamente femminile che ogni fanciulla “dimora” nella gioa nel tempo primaverile: il verbo allude a un possesso calmo dell’amore, dove non c’è turbamento né passione, ma piuttosto gratitudine per la presenza dell’amato. Notevole la perizia tecnica del chiasmo “foglia e fiora”/”fior né foglia” rispettivamente al primo e all’ultimo verso, a incorniciare un’esile vicenda sentimentale.
Vittoria Colonna Il Cinquecento segna il momento magico delle donne poetesse, certo ispirate dal petrarchismo allora in voga. Vi sono vari canzonieri femminili di notevole eleganza formale, in cui la ferma compostezza non scade nella facile effusione sentimentale. Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara, Isabella Morra sono i nomi più noti delle poetesse italiane del Cinquecento.
Nella lirica di Vittoria Colonna, amata da Michelangelo, sono presenti accenti di quella severa religiosità che la fece animatrice della vita culturale a Roma intorno al 1530:
“Così mi sforza la nimica sorte le tenebre cercar, fuggir la luce, odiar la vita e disiar la morte”, dove l’abito ragionativo più che l’immaginazione traluce nel chiasmo e nelle due marcate antitesi.
Meno rigida, ma più manierista appare la lirica di Veronica Gambara, di origine aristocratica e di vaste letture, che sembrano a volte imbrigliare la schiettezza del sentimento. Nelle stanze che celebrano il ritorno della primavera si sente, ad esempio, l’eco quattrocentesca di Poliziano e lo struggimento dei classici per la brevità della vita:
“e quando miro le vestite piante pur di bei fiori e di novelle fronde, e de gli augelli le diverse e tante odo voci cantar dolci e gioconde, e con grato rumore ogni sonante fiume bagnar le sue fiorite sponde, tal che di sé invaghita la natura gode in mirar la bella sua fattura, dico, fra me pensando: Ahi quanto è breve questa nostra mortal misera vita!”
L’amore umano si risolve in Gaspara Stampa, nobildonna di origine milanese stabilitasi a Venezia ad animare la vita culturale di quella città, in dolente religiosità; l’accento è sincero, pur sotto la patina petrarchista:
“Mesta e pentita de’ miei gravi errori e del mio vaneggiar tanto e sì lieve, e d’aver speso questo tempo breve de la vita fugace in vani amori, a te, Signor, ch’intenerisci i cori, e rendi calda la gelata neve, e fai soave ogn’aspro peso e greve a chiunque accendi di tuoi santi ardori, ricorro; e prego che mi porghi mano a trarmi fuor del pelago, onde uscire, s’io tentassi da me, sarebbe vano.
Tu volesti per noi, Signor, morire, tu ricomprasti tutto il seme umano;
dolce Signor, non mi lasciar perire!”
Se il secolo d’oro in Italia vedeva le poetesse divise tra amori umani e amore di Dio, in Spagna fiorisce contemporaneamente la poesia di santa Teresa d’Avila, la riformatrice del Carmelo, una delle mistiche più grandi dell’intera storia della Chiesa e insieme una delle voci più intense della storia della Spagna.
Ecco come ad esempio ella esprime il distacco dell’anima, la sua libertà dal variare delle circostanze, quando essa si è donata al suo Dio:
“Dammi ricchezza o povertà riservami, inferno dammi o cielo, vita sepolta fra le più dense tenebre o sole senza velo:
a tutto mi sommetto, o dolce Amore:
dimmi che vuoi da me, dimmi Signore”.
Si racconta che una suora, incaricata dalla santa di ricopiare una poesia, andava pensando in cuor suo, che quella lirica non era molto dignitosa per una donna come la Madre. Ma Teresa, che per divina ispirazione ne aveva conosciuto i pensieri, le disse con molta grazia, passando accanto alla sua cella: “Tutto ciò è necessario per sopportare la vita”. Episodio rivelatore di una certa arguzia e insieme di amore per l cose create.
Ada Negri Altre donne nel corso dei secoli hanno lasciato nella poesia traccia della loro spiritualità: la piccola Teresa di Lisieux, le cui poesie sono state tradotte da Carlo Betocchi, Gertrud von le Fort, autrice degli “Inni alla Chiesa”, conosciuti in Italia solo dopo la guerra a causa delle difficoltà interposte dalle autorità tedesche alla loro diffusione. Vorremmo tuttavia concludere questa rassegna ancora con una voce italiana, quella di Ada Negri, poetessa lodigiana, dapprima socialista e poi approdata alla fede. Anima appassionata e ardente, intenerita dal dolore della vita, ella perviene a un abbandono carico di forza e di fiducia al Dio finalmente riconosciuto come suo Dio. La poesia che abbiamo scelta è una delle ultime della sua ricca produzione e si intitola “La verità”:
“A Te solo non posso celarmi. Oscuro smisurato è il fondo dell’essere. Non v’ha pupilla umana, s’io lo nascondo, che a scrutarlo arrivi.
Ma nulla al tuo tremendo potere è tolto. Sta l’anima ignuda sotto il divino sguardo che la trapassa: e il non aver difesa gioir le dà, se pur vergogna e pianto delle sue colpe. Mai sì forte io t’amo, Signor che tutto sai, come nell’ore in cui più sento che di me non fugge al tuo giudizio un palpito, un pensiero, un affanno, un rimorso – e la mortale mia verità riflessa è nello specchio della tua luce eterna”.
Non è possibile non percepire quanto femminile sia la consapevolezza di poter dissimulare il proprio segreto agli occhi umani e viceversa la gioia del possesso più grande a cui si possa aspirare, e che è solo di Dio, quello di non potersi celare dietro ad alcuna difesa. Allora è vero che anche la donna ama, perché sa di essere conosciuta nel profondo e nel profondo perdonata.
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