
Cronaca di una casuale (e sbalorditiva) serata di catechismo biblico

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Mi telefona Vittorio. Ha la voce trafelata, mi racconta di essere in un pasticcio per “l’incontro, convegno, volantino, non so che fare, relatori, fretta, verresti tu stasera a fare da moderatore?”. Ho capito solo l’ultima domanda. E qui faccio l’errore tipico di ogni amicizia: dico “sì” al buio. Poi, man mano che Vittorio prende fiato, comprendo di essermi messo in un mezzo guaio.
Vittorio è Vittorio Robiati Bendaud, mio amico, ebreo, coordinatore del tribunale rabbinico del Centro Italia, cui qualche volta ho chiesto di scrivere per Tempi e lui l’ha fatto sempre egregiamente, volentieri e gratuitamente. Insomma, sono in debito con lui ed è una cosa che mi piace. Penso che l’essere debitori sia uno dei collanti più efficaci per cementare l’amicizia: non ti permette di staccarti e trovare scuse per volatilizzarti. Se sei in debito, devi pagare pegno, non si scappa. Bisognerebbe sempre cercare di avere “debiti d’amicizia”, è il miglior modo per vincere l’accidia.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Dunque dico “sì”. Ma poi mi pento perché Vittorio mi spiega che “stasera” (cioè di lì a tre ore) è in programma un incontro al centro San Fedele di Milano su “Le storie di Giacobbe”. È il primo appuntamento del ciclo “Dialoghi a due voci tra ebrei e cristiani sulla scrittura”, ideato vent’anni fa dal cardinale Carlo Maria Martini e dal rabbino Giuseppe Laras. I tre relatori in cartellone, compreso il moderatore, hanno dato forfait all’ultimo minuto e Vittorio sta cercando disperatamente dei sostituti. Uno è lui, che farà il commento da parte ebraica, l’altro è monsignor Roberto Vignolo, docente di Sacra scrittura alla facoltà teologica di Milano. Dunque manca il moderatore. Cioè io. Io? A tema c’è il ventisettesimo capitolo della Genesi che – «come-tu-sai-benissimo» – narra di come Giacobbe ottiene la benedizione da Isacco.
Ora. Io non so niente né della Genesi, né di Giacobbe, né di Rebecca, né di Isacco, né di Esaù («quello peloso, no?», azzardo rivelando tragicamente la mia cultura da Trivial Pursuit). È da quando sono piccolo che mia madre è convinta che io sia “allergico al fumo delle candele” (tradotto dal brianzolo: uno che mal sopporta preti, sante Messe et similia). Mi autodenuncio: «Vittorio, io della Bibbia non so un accidente». E qui mi spiazza: «Tranquillo, io la studio un’ora al giorno da quindici anni e posso dire la stessa cosa». Non mi tranquillizza, ma mi incuriosisce. Così mi caccio nei guai e vado.
È stata una serata sbalorditiva. Per me una vera iniziazione, e qui il lettore mi scuserà se d’ora in avanti sarò impreciso e arruffone nei riferimenti, ma vado a memoria e seguendo qualche appunto scarabocchiato su un foglietto.
Il passo biblico racconta di Isacco ormai vecchio, cieco e morente che manda a chiamare il primogenito Esaù perché si procuri della cacciagione, la cucini per lui e si faccia benedire. Rebecca, udito il proponimento del marito, chiama Giacobbe e lo incarica di portare al padre dei piatti succulenti. Giacobbe resiste, ma la madre lo copre di pelli così da sembrare il villoso fratello e gli ordina di ubbidirle. Lo stratagemma funziona, Isacco benedice Giacobbe. Quando ritorna dalla caccia, Esaù si dispera e promette vendetta. Rebecca avvisa Giacobbe di fuggire.
Fin qui il riassunto. Ma quel che i due relatori hanno saputo cavarne fuori è stata una miniera d’oro di suggestioni e insegnamenti. Innanzitutto: Giacobbe, pur agendo in maniera truffaldina, ubbidisce alla madre. Se è vero che il decimo comandamento prescrive di «onorare il padre e la madre» è anche vero che, invertendo la priorità dei sostantivi, nel Levitico si dice che il figlio deve «temere la madre e il padre». E poiché Isacco era alla fine dei suoi giorni, spettava a Rebecca prendere le decisioni e ai figli ubbidirle (cosa che fa Giacobbe e non Esaù).
Questa è una delle osservazioni di Vittorio che più mi hanno colpito: «La storia della salvezza è sempre affidata a una coppia: Adamo ed Eva, Abramo e Sara, Isacco e Rebecca. Quando l’uno è in difficoltà è l’altro a garantire che la storia della salvezza prosegua. Perché tra Dio e l’uomo c’è un “patto societario” che è affidato al nucleo societario per eccellenza: quello fra uomo e donna». Cioè, per come la capisco io: per mantenere fede alla sua alleanza con l’uomo, Dio si affida ad un’altra alleanza; un rapporto che si innesta in un altro rapporto; un amore che si fonda su un altro amore.
Due. Come ha detto don Roberto, «la grandezza di questa pagina sta nel suo sconcerto estremo. L’inganno di Giacobbe non è “mendacium sed mysterium” come spiegava san’Agostino». In questa vicenda di fraternità conflittuale e inganni, si rintraccia, tra itinerari zigzaganti, lo scorrere di un fiume carsico, «un continuum della benedizione che è segno di Dio». Volgarizzo: la fedeltà di Dio alla sua creatura passa attraverso miserie, tradimenti, ambiguità, desideri. Dio è fedele al suo patto anche se l’altro contraente non ne è all’altezza. Perché è un legame con noi, non “nonostante noi”.
Va bene. Finisco di buttare giù queste impressioni, mi rileggo e comprendo di non essere riuscito a comunicare nemmeno un centesimo di quel che è stato illustrato quella sera. Davvero la Bibbia è per ricchezza di perle preziose un “manuale di anti-moralismo” incomparabilmente superiore a qualsiasi altra opera umana (lo pensava anche Nietzsche). Mi rimane l’entusiasmo del neofita e la vergogna della mia asinina ignoranza. E, a dirla tutta, pure una domanda un po’ cattivella per i nostri sacerdoti: ma perché nelle omelie domenicali non ci spiegate queste cose anziché farci le prediche sulla potabilità dell’acqua? (ve l’avevo detto che sono allergico al fumo delle candele).
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