Cristiani pakistani, tribolati ma non schiacciati
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – I sacerdoti e i vescovi pakistani sono tutti “preti di strada”, ma in un’accezione molto diversa da quella che l’espressione ha in Italia. In Pakistan li trovate per strada a protestare ogni due per tre perché ci sono tante ingiustizie che meritano l’attenzione dei cristiani e tante violenze di ogni tipo compiute ai danni della minoranza religiosa che loro rappresentano: meno del 2 per cento su una popolazione di 190 milioni di abitanti, per il 96 per cento musulmani. «Grazie a Dio in Pakistan siamo liberi di esprimere il nostro pensiero e le nostre idee, siamo liberi di manifestare sulla pubblica via, di riempire le piazze con cartelli e striscioni. Possiamo essere ammazzati per quello che diciamo, ma siamo liberi di dirlo!».
Joseph Coutts, arcivescovo 71enne di Karachi e presidente della Conferenza episcopale cattolica pakistana, ride come il Babbo Natale delle pubblicità, assistito da una barba e da una capigliatura candidissime. Nei nove mesi successivi alla sua nomina episcopale del gennaio 2012 nella megalopoli del Sindh (Karachi è l’area metropolitana più popolosa del Pakistan, con 24 milioni di abitanti), vennero assalite, razziate, vandalizzate o date alle fiamme sei chiese. La parrocchia cattolica di san Francesco d’Assisi fu attaccata tre volte in un mese. In quell’occasione il vescovo guidò una marcia alla quale parteciparono anche 70 fra preti, suore e politici di estrazione cristiana. «La comunità cristiana continuerà a organizzare proteste fino a quando il governo non garantirà sicurezza e tranquillità alle minoranze religiose in questo paese», dichiarò l’arcivescovo all’indomani della manifestazione.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Quel “fino a quando” spiega bene perché i cristiani pakistani, spesso d’intesa con attivisti dei diritti umani di fede musulmana o indù, hanno continuato a manifestare fino ai giorni nostri. Il 15 marzo prossimo cade il primo anniversario degli attacchi contro due chiese, una cattolica e l’altra protestante, di Lahore. Attentatori suicidi appartenenti al gruppo Tehrik-i-Taliban causarono 17 morti e 70 feriti: il bilancio non fu peggiore perché gli attentatori furono fermati prima di poter entrare dentro ai luoghi di culto. Lo stesso gruppo terroristico due anni prima aveva colpito la storica chiesa anglicana di Tutti i Santi a Peshawar, nel nord del paese, causando 87 morti nel settembre 2013 grazie all’azione di due attentatori suicidi.
Mentre si avvicina il primo anniversario degli attacchi di Lahore, è appena trascorso il quinto dell’assassinio di Shahbaz Bhatti: il 2 marzo 2011 una squadra di terroristi di Tehrik-i-Taliban uccideva l’allora ministro federale per gli Affari delle minoranze, mitragliandolo dentro alla sua auto appena uscito di casa a Islamabad. In poco più di due anni come ministro il cattolico Shahbaz Bhatti aveva avviato numerosissime iniziative per migliorare le condizioni delle minoranze religiose, ma a guadagnargli la condanna a morte da parte dei terroristi era stata la sua avversione nei confronti della legge contro la blasfemia introdotta ai tempi del dittatore Muhammad Zia-ul-Haq, divenuta negli anni uno strumento per vendette personali e per eccitare folle intolleranti contro esponenti delle minoranze religiose con false accuse. Monsignor Coutts non ha partecipato agli atti di commemorazione di Shahbaz Bhatti in patria perché si trovava in visita in Italia per una serie di conferenze invitato da Aiuto alla Chiesa che soffre. «Lo accusavano di essere un blasfemo e con quel pretesto lo hanno ucciso, ma lui voleva solo riformare la legge sulla blasfemia perché non venisse usata, come accade normalmente, per opprimere le minoranze».
Qualche passo avanti
Cinque anni dopo il sacrificio di Shahbaz Bhatti, mentre si raccolgono le testimonianze in vista dell’apertura del processo di canonizzazione e varie fonti annunciano una visita di papa Francesco in Pakistan nel prossimo mese di settembre, arriva qualche segnale positivo dal martoriato paese e dai suoi tribolati cristiani? L’arcivescovo dice di sì: «Nel novembre scorso – racconta a Tempi – la Corte Suprema del Pakistan ha stabilito che si può criticare la legge sulla blasfemia senza incorrere nell’accusa di essere blasfemi. La sentenza emessa dice che “qualsiasi appello per la riforma della legge sulla blasfemia non può essere inteso come un appello a togliere di mezzo tale legge, ma deve essere inteso come un appello a introdurre adeguate salvaguardie contro l’applicazione malevola o l’uso strumentale della legge”. Questo è un fatto molto importante, perché ora il dibattito sulla sua riforma può iniziare in un clima sereno, nel quale le intimidazioni possono essere respinte, perché la Corte ha detto chiaramente che chi critica la legge non è per questo fatto un blasfemo».
Un altro passo in avanti monsignor Coutts lo vede nell’applicazione sempre più efficace della legge contro l’incitamento all’odio. Recentemente il governo ha chiuso 254 madrasse (scuole coraniche) per violazioni legate alla legge contro l’incitamento all’odio, e ha esteso la sorveglianza alle moschee: «Un imam può essere incriminato se usa gli altoparlanti della moschea per incitare all’odio contro gruppi o persone. Anche questo provvedimento è molto importante, perché fino a ieri gli altoparlanti delle moschee, che dovrebbero servire a chiamare alla preghiera o a fare ascoltare i sermoni a chi sta fuori dall’edificio, sono stati usati per eccitare la folla a dare la caccia a persone accusate di blasfemia. Gli assalti ai quartieri cristiani con centinaia di case bruciate sono nati così, con appelli incendiari lanciati dalle moschee. Adesso gli imam stanno imparando a essere più prudenti». L’anno scorso sono stati aperti 9.689 procedimenti penali contro “predicatori dell’odio”, molti dei quali accusati di avere usato gli altoparlanti della moschea dove predicavano per diffondere odio settario.
Tutti per la pena di morte
Un terzo sviluppo positivo che monsignor Coutts ama sottolineare, anche perché può vantare qualche merito personale a questo proposito, è la revisione dei testi scolastici che trattano materie religiose. «Il governo ha cominciato a modificare i contenuti dei libri di testo scolastici che parlano di religione, dove molto spesso i credenti non musulmani sono presentati in modo negativo. Questa è una battaglia che ho condotto in prima persona quando presiedevo la Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale, e sono contento che cominci a dare dei frutti».
Un quarto motivo di compiacimento da parte dell’arcivescovo cattolico di Karachi – e qui i buonisti e i fautori del politicamente corretto si turino ben bene le orecchie – è la recente esecuzione capitale di Mumtaz Qadri, l’uomo che il 4 gennaio 2011 uccise il governatore del Punjab Salman Taseer, reo ai suoi occhi di blasfemia per aver criticato la famosa legge e per aver visitato in carcere Asia Bibi, la giovane donna cristiana condannata a morte per l’asserita violazione della legge.
«Dovete capire la specificità del Pakistan e le circostanze di quell’omicidio», spiega monsignor Coutts. «Qadri era la guardia del corpo di Taseer, era il responsabile della sua sicurezza, l’uomo a cui il governatore aveva affidato la propria vita. Lo ha tradito, lo ha ucciso intenzionalmente, premeditatamente e davanti a testimoni. Non si è mai pentito del suo crimine, ma ha sempre ripetuto di avere fatto la cosa giusta. Se fosse evaso dal carcere, Qadri avrebbe potuto uccidere di nuovo, perché per lui era giusto uccidere chi si oppone alla legge contro la blasfemia. E purtroppo ha trovato tantissimi sostenitori nella società pakistana, come s’è visto il giorno del suo funerale, quando la piazza si è riempita di migliaia di persone. In Pakistan da sempre gli omicidi intenzionali e premeditati sono puniti con la pena di morte, e il 96 per cento dei pakistani (sondaggio Gallup, ndr) è d’accordo con questa norma. E inoltre occorreva anche mandare un messaggio agli estremisti e ai simpatizzanti degli estremisti, e cioè che loro non sono al di sopra della legge, che se uccideranno quelli che considerano apostati (Taseer era un musulmano) o blasfemi, pagheranno a loro volta con la vita».
In Pakistan vigeva una moratoria sulle esecuzioni capitali, ma dopo l’eccidio di Peshawar del dicembre 2014 nel corso del quale i terroristi hanno ucciso 141 persone, nella quasi totalità bambini e ragazzi di una scuola riservata ai figli dei militari, la pena di morte è stata reintrodotta e più di 300 persone sono state impiccate.
Rapimenti e matrimoni forzati
Si fa notare all’arcivescovo che il Giubileo della misericordia dovrebbe essere un tempo propizio per il perdono dei nemici, inclusi quelli che si sono macchiati le mani di sangue. «Mentre sono sotto la minaccia costante di nuovi attacchi, non posso chiedere alle nostre comunità di perdonare chi gli ha già fatto del male: non capirebbero», risponde monsignor Coutts abbassando lo sguardo. «Tutto quello che posso fare, è convincerli che non devono cercare di vendicarsi, è insistere perché rimettano la giustizia nelle mani di Dio e delle autorità. Dopo gli attentati di Lahore una folla di cristiani ha linciato due lavoratori musulmani accusandoli di essere complici degli attentatori, è stata una cosa orribile. Io lavoro per evitare che si ripetano casi del genere, organizziamo noi vescovi e sacerdoti le proteste proprio perché non degenerino, perché la gente si trattenga dagli eccessi a motivo della nostra presenza».
Eppure il Pakistan è un paese dove gli esempi di collaborazione fra cristiani e musulmani non mancano, dove i musulmani attivi in organizzazioni che difendono e promuovono i diritti delle minoranze, inclusa quella cristiana, sono numerosi. «Fra i musulmani pakistani ci sono persone meravigliose», spiega monsignor Coutts. «Penso a gente come il governatore Salman Taseer, che è stato ucciso per aver preso le difese di Asia Bibi; penso alla deputata e giornalista Sherry Rehman, che ha cercato di riformare la legge sulla blasfemia e per questo si è cercato di incriminarla; penso soprattutto agli attivisti della Commissione per i diritti umani del Pakistan, una Ong molto ben organizzata della quale anch’io per un certo periodo sono stato membro. Il problema è che il Pakistan è un paese sottoposto alla propaganda jihadista da più di trent’anni, e questo ha profondamente influenzato la società. L’avvento di internet e della comunicazione digitale, poi, ha facilitato i rapporti fra i nostri estremisti e quelli di tutto il mondo, ha prodotto la radicalizzazione di molti giovani. Oggi la popolazione musulmana del Pakistan può essere divisa in tre grandi gruppi: una minoranza di persone illuminate, impegnate per la giustizia e attente ai diritti delle minoranze; un’altra minoranza all’altro estremo, incline alla violenza e all’uso delle armi contro quelli che secondo loro sono apostati e infedeli; in mezzo ci sta la maggioranza dei musulmani pakistani, che non si schiera né con gli uni né con gli altri e aspetta di vedere chi vince».
Poi c’è il Pakistan rurale e delle piccole città, dove le cose passano come al tempo dei Promessi Sposi: «In Pakistan ogni anno vengono rapite e costrette a matrimoni poligamici forzati un migliaio di ragazze e giovani donne appartenenti alle minoranze cristiana e indù. Raramente si riesce a liberarle, perché chi ha ordinato di sequestrarle è un signorotto ricco e potente, che ha molta influenza sui rappresentanti locali della polizia e della magistratura, e le denunce delle famiglie cadono nel vuoto. Oppure le ragazze vengono intimidite, si dice loro che la famiglia d’origine subirà rappresaglie se dichiareranno al giudice di essere state prese contro la loro volontà e violentate. Il risultato è che solo poche di queste riacquistano la libertà».
Pochi ma attivi
Invece nelle grandi città, dove la gente segue le notizie della politica internazionale, i cristiani vengono costantemente messi in cattiva luce da imam che li accusano di essere complici dell’imperialismo americano: «Dicono che il tempo delle Crociate non è finito, che quello che gli americani e gli altri paesi occidentali hanno fatto in Iraq e in Afghanistan è la prova che gli infedeli vogliono impadronirsi delle terre dei musulmani. E noi cristiani locali siamo la quinta colonna del nemico». Sembra impossibile che tre milioni di cristiani resistano ancora in condizioni così ostili e non abbandonino il paese. Ma l’arcivescovo Coutts vuole tranquillizzare tutti: «Siamo una minoranza piccola, ma attiva. Cooperiamo al bene di tutto il paese, con le nostre scuole e i nostri servizi sociali. Come ha scritto san Paolo, “siamo tribolati, ma non schiacciati”».
Foto Ansa/Ap
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