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Ma quale resa al laicismo. Il viaggio in Egitto prova che Francesco punta a un’alleanza dei popoli religiosi proprio per salvare la fede dall’emarginazione

Rodolfo Casadei
17/05/2017 - 3:00
Chiesa
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – A chi ha catalogato un po’ sbrigativamente papa Francesco fra i complici consapevoli o inconsapevoli dell’autosecolarizzazione della Chiesa e lo ha accusato di conformismo allo spirito del tempo, la missione in terra d’Egitto dà da pensare. Che lì avrebbe colto l’occasione per ribadire la condanna della violenza praticata in nome di Dio e riaffermare la buona volontà dei cristiani nei riguardi dei musulmani per un rapporto sempre più fraterno, nessuno poteva dubitare. Meno prevedibile era che avrebbe proposto un’alleanza fra credenti contro la commistione fra religione e politica, ma anche contro l’emarginazione della fede dalla vita pubblica. Le parole sul ruolo storico dell’Egitto pronunciate davanti ai partecipanti al convegno internazionale per la pace dell’università di Al Azhar non potevano essere più chiare:

«Fedi diverse si sono incontrate e varie culture si sono mescolate, senza confondersi ma riconoscendo l’importanza di allearsi per il bene comune. Alleanze di questo tipo sono quanto mai urgenti oggi. (…) Il Sinai ci ricorda anzitutto che un’autentica alleanza sulla terra non può prescindere dal Cielo, che l’umanità non può proporsi di incontrarsi in pace escludendo Dio dall’orizzonte, e nemmeno può salire sul monte per impadronirsi di Dio. Si tratta di un messaggio attuale, di fronte all’odierno perdurare di un pericoloso paradosso, per cui da una parte si tende a relegare la religione nella sfera privata, senza riconoscerla come dimensione costitutiva dell’essere umano e della società; dall’altra si confonde, senza opportunamente distinguere, la sfera religiosa e quella politica. (…) In un mondo che ha globalizzato molti strumenti tecnici utili, ma al contempo tanta indifferenza e negligenze, si avverte la nostalgia delle grandi domande di senso, che le religioni fanno affiorare e che suscitano la memoria delle proprie origini. (…) Per queste ragioni, oggi specialmente, la religione non è un problema ma è parte della soluzione: contro la tentazione di adagiarci in una vita piatta, dove tutto nasce e finisce quaggiù, essa ci ricorda che è necessario elevare l’animo verso l’Alto per imparare a costruire la città degli uomini».

Francesco ha scelto le orecchie più disponibili di tutto il bacino mediterraneo per lanciare questo messaggio. Secondo una recente elaborazione del Daily Telegraph basata sui dati 2008, 2009 e 2015 del grande sondaggio sulla religiosità nel mondo periodicamente svolto da WIN/Gallup International (Religiosity and Atheism Index), l’Egitto è il paese più religioso fra tutti quelli che si affacciano sul Mediterraneo: dichiarano di essere “persone religiose” il 97 per cento degli egiziani. Sulla sponda nord la situazione è variegata: si alternano paesi con tassi decisamente bassi (dopo il 40 per cento della Francia ci sono il 39 dell’Albania e il 37 della Spagna) a paesi che superano il 70 per cento (71 Grecia, 74 Italia, 79 Turchia); ma sulla sponda sud tutti i paesi superano il 90 per cento, con la sola clamorosa eccezione di Israele (30 per cento di religiosi dichiarati). Francesco ha scritto nelle sue due encicliche (Lumen Fidei e Laudato si’) e nelle sue due esortazioni apostoliche (Evangelii Gaudium e Amoris Laetitia) che «il tempo è superiore allo spazio», cioè che i processi che trasformano società e culture hanno il sopravvento sulla fissità dello spazio che «cristallizza i processi», ma che dia per scontato che il processo prevalente a livello mondiale sarà quello della secolarizzazione, questa è un’interpretazione da occidentali (o estremo-orientali) presuntuosi.

Le vere ragioni dell’accoglienza
È vero che l’irreligiosità domina da tempo o guadagna rapidamente posizioni in paesi europei importanti come la Germania (dove solo 34 persone su 100 si dichiarano religiose), il Regno Unito (30), l’Olanda (26), la Svezia (19) e nell’Estremo Oriente dove si trovano i due paesi leader mondiali per percentuale di abitanti che si dichiarano atei: Cina (7 per cento) e Giappone (13). Ma bisogna avere la pazienza di raffrontare i tassi di fecondità dei paesi più religiosi del mondo con quelli dei paesi meno religiosi. Si scoprirebbe che fra i 10 paesi meno religiosi nessuno presenta tassi di fecondità pari o superiori alla soglia del rimpiazzo generazionale (2,1 figli per donna) tranne Israele, dove la fecondità è di 3,05, mentre in tutti gli altri oscilla fra l’1,2 di Hong Kong e l’1,96 di Svezia e Regno Unito. Invece nei 10 paesi più religiosi del mondo con più di 10 milioni di abitanti si registrano tassi di fecondità superlativi, che vanno dai 4 ai 7,5 figli per donna, con l’eccezione di Sri Lanka (2,11) ed Egitto (dove sono pur sempre 3,38).

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È dai paesi dell’Africa e dell’Asia ad alto tasso di religiosità e di fecondità che provengono molti dei migranti economici che cercano con tutti i mezzi di entrare in Europa e per i quali il Papa sembra a volte domandare accoglienza illimitata. Posizione che i critici attribuiscono meno all’amore cristiano che a una motivazione ideologica da sinistra radicale: mettere in crisi il sistema capitalista nella sua versione europea presentandogli il conto degli squilibri mondiali che produce per potere continuare l’interminabile festa della società consumista. Questa interpretazione però dimentica che i nuovi migranti non importano solo braccia giovani e povertà in una società benestante e senescente, ma anche spirito religioso in un continente dove le uniche divinità rimaste sono i capricciosi desideri del singolo. I tassi di pratica religiosa fra gli immigrati sono decisamente più alti di quelli degli autoctoni non solo per quanto riguarda gli islamici, ma anche per quanto riguarda i cristiani di varie confessioni, sia protestanti evangelici e pentecostali che ortodossi dell’Europa dell’Est e del Vicino Oriente che cattolici africani e asiatici.

La mutazione dell’orbe cattolico
Che l’Africa e alcuni paesi dell’Oriente siano oggi più favorevoli allo sviluppo del cattolicesimo che l’Europa egemonizzata dal secolarismo e l’America latina erosa dal protestantesimo evangelico e pentecostale non è una novità. Come pure non è una statistica segreta quella che informa che nei cento anni che vanno dal 1910 al 2010 la composizione dell’orbe cattolico è profondamente mutata: gli europei sono scesi dal 65 al 24 per cento del totale, gli americani sono saliti dal 29 al 47, gli africani da meno dell’1 al 16, gli asiatici dal 5 al 12. Le nomine di cardinali effettuate da Francesco nei tre concistori del suo pontificato hanno impresso il sigillo papale sullo spostamento verso sud e verso est dell’asse del cattolicesimo, ma non soltanto perché in quelle regioni del mondo è in aumento il numero dei battezzati: a volte si tratta di aree dove i cattolici non sono affatto numerosi né è previsto che lo diventino, ma importanti dal punto di vista demografico e del significato spirituale. Con Francesco per la prima volta sono diventate sedi cardinalizie Dacca, Kuala Lumpur, Yangon, Tonga e sono stati nominati nuovi cardinali ad Addis Abeba, Hanoi e Bangkok. Si tratta di realtà dove pochi cattolici sono immersi in maggioranze islamiche, buddhiste, copte, protestanti, spesso di paesi in forte espansione demografica: Birmania, Thailandia, Vietnam, Bangladesh, Etiopia sono paesi la cui popolazione è triplicata nell’arco degli ultimi cinquant’anni restando molto religiosa, con l’eccezione del Vietnam.

La mappa del gradimento
Anche il luogo comune che papa Francesco piace più ai non credenti che ai cattolici e ai fedeli di altre religioni va riesaminato alla luce del viaggio in Egitto e delle indagini demoscopiche più autorevoli. A portare acqua al mulino dei critici del “piacionismo” bergogliano sono dati provenienti dagli Stati Uniti: secondo il Pew Research Center all’inizio di quest’anno Francesco raccoglieva il 70 per cento di opinioni favorevoli fra tutti gli americani e l’87 per cento fra i cattolici; questo secondo dato lo pone davanti al predecessore Benedetto XVI, che negli anni del suo papato registrò una media del 74 per cento di consensi fra i cattolici, ma dietro a Giovanni Paolo II, che vanta la straordinaria media del 93 per cento. A innalzare il gradimento di papa Bergoglio fra la popolazione totale statunitense sarebbe stata la “conversione” di atei e agnostici, che nel 2013 vedevano favorevolmente Francesco solo per il 39 per cento, e oggi lo approvano al 71 per cento.

Tuttavia se si riguarda l’inchiesta della Gallup dell’anno scorso sul gradimento del Papa nel mondo, si vede che i paesi dove registra i consensi più alti fra tutta la popolazione sono quelli massicciamente cattolici: Portogallo (94 per cento), Filippine (93), Argentina (89), Italia (86), Colombia (84). Nell’Europa più secolarizzata i dati non sono lusinghieri: in Svezia come nel Regno Unito i favorevoli sono solo il 37 per cento. In realtà gli unici paesi dove Francesco fa fatica sono quelli musulmani. Lì la maggioranza dei sondati non esprime nessuna opinione sul Papa, ma quelli che lo fanno sono perlopiù contrari. Gli unici tre paesi dove le opinioni sfavorevoli superano quelle a favore sono musulmani: Algeria (28 per cento contro 9), Tunisia (25/15) e Turchia (26/13). Nei Territori Palestinesi se la cava per un soffio (27/32). Sarebbe interessante tornare a sondare gli umori in questi paesi dopo lo storico intervento ad Al Azhar.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

Tags: cristianesimoEgittoreligioni
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