Good Bye, Lenin!
Così in Russia la guerra sta distruggendo anche le parole
Ogni anno in vari paesi vengono individuate le “parole dell’anno”, termini divenuti virali e che hanno caratterizzato le discussioni soprattutto in ambito socio-politico. Ad esempio in Germania – dove la scelta risale al 1970 – la parola dell’anno è Zeitwende, “svolta epocale”, mentre per l’inglese britannico Oxford ha indicato goblin mode, “atteggiamento accidioso”.
Per la lingua russa è il team di Michail Epštejn, filologo e culturologo russo espatriato nel 1990 negli Stati Uniti, ad occuparsene dal 2016. Quest’anno la scelta è ricaduta su “guerra” (vojna), «una parola vietata in patria, condannata al silenzio – per questo grida così acutamente al mondo intero», ha scritto Epštejn sul portale Novaja Gazeta.
A onor del vero, dal 2018 fa la sua scelta linguistica anche l’Istituto Puškin di Mosca, che l’anno scorso aveva premiato sputnik, nel senso del vaccino anti-Covid. Ma dato che sui social russi la parola “guerra” è tabù, quest’anno il Puškin ha scelto la parola “eredità”, così ammantata di patriottismo.
Da parte sua, Epštejn ha spiegato che l’articolo 353 del codice penale persegue i «crimini contro la pace e la sicurezza, e la guerra di aggressione è punita con la reclusione da dieci a venti anni». Per questo in Russia parlare di guerra «equivarrebbe a dichiarare criminale il governo stesso». Di conseguenza, «anche la parola “pace” è diventata penalmente punibile: provate a scriverla su un foglio di carta e a mostrarla ai passanti. Inoltre, sbaglierebbe chi paragonasse l’attuale regime a quello raccontato da Orwell, che usava lo slogan “La guerra è pace”; lì infatti le due parole sono espresse ed accostate l’una all’altra», ma si tratta ancora di «totalitarismo vecchio stile», mentre oggi lo Stato russo «preferisce agire furtivamente, semplicemente rimuovendo le parole, strappando la lingua alla società».
Accanto a “guerra”, Epštejn elenca una serie di espressioni candidate a parola dell’anno: “mobilitazione“ e “mobilitazione parziale”, “profughi”, “ricollocamento”, “occupazione”. Secondo lo studioso, nella cultura russa sono riapparsi “nomadismo” e “colonizzazione”, che portano con sé il caos sociale e la perdita di legami stabili. Dopo i rifugiati della Rivoluzione e della Seconda Guerra mondiale, dopo la deportazione forzata di interi popoli e ceti sociali, il GULag e l’esilio, ora abbiamo la mobilitazione e il ricollocamento.
Altri termini in lizza sono rašismo (un ibrido anglo-russo che unisce “Russia” e “fascismo”), “imperialismo”, “fascismo”, e il sorprendente uso della lettera latina “Z” al posto del cirillico “з” (traslitterata come “z”, perciò per noi la differenza non si nota). Chi avrebbe mai pensato che una lettera latina sarebbe stata introdotta non dagli “agenti stranieri” occidentali, ma dagli stessi ideologi del Cremlino nel corso di una crociata contro tutto ciò che sa di Occidente?
Mentre negli ultimi decenni – conclude Epštejn – in alcune lingue si è sentita l’esigenza di passare all’alfabeto latino, la Russia è rimasta il baluardo della tradizione – l’eredità, appunto.
Altre espressioni fanno parte della propaganda e disinformazione: «Parole, espressioni e frasi che stravolgono ciò che rappresentano, dipingono di nero ciò che è bianco e viceversa». Ad esempio affermazioni palesemente false come «non abbiamo attaccato l’Ucraina» (Lavrov, 10 marzo) o «la Russia non ha mai attaccato nessuno» (patriarca Kirill, 3 maggio), che rientrano chiaramente in ciò che Epštejn definisce «antilingua». Così i “territori liberati” sono le regioni ucraine invase e occupate, le “armi ad alta precisione” sono i missili che uccidono i civili e distruggono gli edifici.
In prima fila, dopo l’“operazione militare speciale” troviamo l’espressione “screditare l’esercito”, con cui viene bollata qualsiasi opinione sulla guerra che non coincida con quella ufficiale. È grazie a questa accusa (art. 20.3.3 KoAP) che viene aperto il maggior numero di procedimenti (a metà dicembre erano 5.518), benché i principali imputati – nota il linguista – andrebbero ricercati nell’esercito stesso, che viene screditato dalla corruzione, dalle atrocità e dalle rapine commesse dai soldati contro la popolazione civile.
Al secondo posto c’è il binomio “denazificazione e smilitarizzazione”, «responsabile di decine di migliaia di morti, feriti e sfollati». Solo al terzo posto troviamo l’“agente straniero”, termine che identifica chi (persona o ente) riceve sostegno dall’estero: «Si tratta di una nostra vecchia conoscenza: dal 2012, quando è stato introdotto dalla Duma di Stato, è rimasto costantemente ai primi posti in classifica».
Qualche anno fa, osserva ancora Epštejn, per tranquillizzare l’opinione pubblica russa, le inondazioni venivano chiamate “allagamenti”, gli incidenti aerei diventavano “atterraggi bruschi”, e così via. «Ora la tavolozza degli eufemismi si è notevolmente ampliata: una vergognosa ritirata dell’esercito diventa “riordinamento delle truppe” o “gesto di buona volontà”; la crisi economica è solo una “crescita negativa”», e lo stesso vale per ciò che al Cremlino non piace: la critica alla politica russa è “russofobia”, e i paesi che la esercitano diventano “paesi ostili”, Gayropa, naglosassoni (da naglyj, “spudorato”).
Da un lato, le stanze del potere hanno prodotto meme quali “avere un sedere di gomma” (Putin, 1° settembre, riferito a chi lavora sodo), “sedersi sul deretano senza fiatare” (Putin, 27 ottobre, biasimando l’influsso dell’Occidente in Ucraina) e “che ti piaccia o meno, aspetta, bellezza mia” (Putin, 8 febbraio, riferito a Zelensky, citato da una canzone degli anni Novanta). Dall’altro, nell’opposizione si parla del “nonno nel bunker” (riferito a Putin), di mogilizacija – da mogila, “tomba” – al posto di mobilizacija, “mobilitazione”, sintomo che nel russo contemporaneo la zona neutra, imparziale, puramente denominativa è sempre più offuscata dalla polarizzazione tra il linguaggio autoreferenziale delle autorità e quello critico dell’opposizione.
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