Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Chiarito che il 70 per cento circa dell’onda anomala di migranti irregolari che ha investito l’Europa quest’anno è costituito da persone che fuggono da paesi in guerra a cominciare dalla Siria, è tempo di occuparsi dell’altro 30 per cento, cioè di coloro che fuggono la povertà piuttosto che orrori bellici. Occorre farlo perché dentro a tale minoranza di fuggitivi cova una questione pronta a esplodere: quella di 1,1 miliardi di africani destinati a diventare 2,2 miliardi entro il 2050. Il 65 per cento degli africani ha meno di 30 anni e tanta voglia di migliorare le proprie condizioni, mentre nella Unione Europea gli under 30 sono soltanto il 33 per cento della popolazione totale. In altre parole: quello che adesso è visto come uno tsunami migratorio sarà declassato a semplice mareggiata, quando fra qualche anno arriverà l’ondata vera, quella degli africani che si riverseranno sull’Europa a decine di milioni all’anno. Se l’economia e la qualità della vita nel continente nero non prenderanno una svolta per il meglio.
Gli attuali migranti irregolari per motivi economici, suscettibili di essere respinti perché non hanno i requisiti per essere accolti come profughi in pericolo di vita nel loro paese d’origine, vengono quasi tutti dall’Africa. Nigeria, Senegal, Guinea Conakry, Costa D’Avorio, Gambia, Mali, Sudan, Egitto sono i principali paesi d’origine. Paesi in pace, tranne un paio di Stati all’estremo nord della federazione nigeriana devastati dalle scorrerie dei Boko Haram e alcune regioni sudanesi. Il fatto paradossale è che questi paesi appartengono a un continente, quello africano, che dall’inizio del nuovo millennio registra tassi di crescita dell’economia molto positivi. Nell’ultimo decennio il Pil africano è cresciuto in media del 5,5 per cento all’anno. Dopo i due decenni perduti degli anni Ottanta e Novanta del XX secolo, l’Africa ha cambiato verso, e in nessuno degli anni del terzo millennio fin qui trascorsi la crescita è stata inferiore al 3 per cento, dato registrato nel 2009, cioè nell’anno successivo alla crisi finanziaria globale innescata dai mutui subprime americani. L’anno scorso il Pil africano è aumentato del 3,9 per cento, quest’anno si prevede un più 4,5 per cento, e l’anno prossimo un più 5 per cento. Sono africani sei dei dieci paesi che l’anno scorso hanno registrato i tassi di crescita del Pil più alti del mondo, 15 fra i primi 30. E non si tratta solo di paesi piccoli e poco popolosi: la Repubblica Democratica del Congo, che ha 81,6 milioni di abitanti, l’anno scorso ha registrato una crescita dell’8,6 per cento; l’Etiopia (90 milioni) ha fatto più 8,2 per cento; e la Nigeria (attorno ai 180 milioni, il gigante demografico dell’Africa) più 7 per cento. Anche Costa D’Avorio e Gambia, paesi di emigranti che salgono sui gommoni che solcano il Mediterraneo, hanno segnato performance lusinghiere: più 8,5 il primo, più 7,4 il secondo. L’Africa è percorsa da una grande voglia di impresa: è il continente con la più alta percentuale di popolazione che si è recentemente lanciata in un’attività imprenditoriale (26 per cento fra i 18-64enni, cioè più del triplo dell’Europa che sta al 7,4 per cento) e con la più alta percentuale di donne neo-imprenditrici (25 per cento). I flussi finanziari esterni – che comprendono investimenti esteri diretti, investimenti di portafoglio, aiuti allo sviluppo e rimesse degli emigrati – sono passati dai 50 miliardi del 2001 ai 128 miliardi dello scorso anno.
Una crescita diseguale
A rialzare le sorti di un continente che stava andando alla deriva sono stati soprattutto tre fattori: l’esaurimento di numerosi conflitti interni e fra Stati (anche se in 25 paesi sono ancora attivi 150 gruppi armati antigovernativi), il boom dell’economia cinese che ha trascinato al rialzo il prezzo delle materie prime di cui l’Africa è ricca, cioè minerali e prodotti agricoli, e la disponibilità degli antiretrovirali che hanno messo un argine alla mortalità da Aids (l’Africa è il continente più colpito, con 24 milioni di infettati) e hanno rimesso in grado di lavorare milioni di persone. L’interscambio fra Cina e Africa era virtualmente uguale a 0 nel 2000, oggi supera i 200 miliardi di dollari e Pechino è il primo partner commerciale dell’Africa (anche se i 28 paesi dell’Unione Europea presi insieme hanno con l’Africa un interscambio che è più del doppio di quello esistente fra africani e cinesi). Infine, circa 10 milioni di africani sieropositivi o con Aids conclamato, pari al 40 per cento del totale degli infettati sul continente, sono sottoposti a terapie antiretrovirali che nella maggior parte dei casi permettono loro di tornare attivi. Avviate su larga scala grazie a un programma finanziato dall’amministrazione americana sotto G. W. Bush nel 2003 chiamato Pepfar, le terapie antiretrovirali in Africa, oggi meno costose che in passato, sono finanziate con 10 miliardi di dollari circa all’anno di varia provenienza.
Se quelli visti sopra sono i numeri della rincorsa economica del continente, perché tanti africani continuano ad emigrare? Anzitutto perché la crescita è diseguale, i suoi benefici non ricadono su tutti; le entrate dall’esportazione delle materie prime vanno allo Stato, che concentra la spesa pubblica nelle aree urbane (dove vive solo il 40 per cento di tutti gli africani). La classe media è rappresentata quasi esclusivamente da impiegati e dirigenti della funzione pubblica, e sono loro i primi a beneficiare della crescita economica, mentre la povertà delle aree rurali e degli insediamenti informali nelle città resta in gran parte intatta. L’African Economic Outlook 2015, stilato da Banca africana per lo sviluppo, Ocse e Pnud, parla di «dimensione spaziale della povertà», cioè del fatto che il persistere della povertà in Africa varia molto in funzione della regione dove le persone abitano. Ma andiamo con ordine.
Vivere senza elettricità e acqua
L’Africa recupera reddito pro capite più rapidamente di quanto recuperi sviluppo umano (che si misura facendo la media di reddito, speranza di vita e alfabetizzazione). Mentre fra il 2000 e il 2014 il Pil pro capite mondiale medio passava da 5.418 a 10.858 dollari (cioè raddoppiava), quello africano aumentava tre volte e mezzo, passando da 501 a 1.720 dollari pro capite. Il miglioramento dell’Indice di sviluppo umano (Isu) non ha mostrato la stessa progressione: nel 1990 era pari a 0,40 mentre quello medio mondiale stava a 0,60; oggi l’Isu africano è calcolato in 0,50, mentre quello mondiale è salito a 0,70. Da una differenza del 33 per cento in meno della media si è passati a una differenza del 28 per cento: recupero davvero modesto. E di fatto annullato se si considera una misurazione più sofisticata, quella dell’Isu corretto tenendo conto della diseguaglianza, cioè di come sono disegualmente distribuiti nella popolazione totale i valori di reddito, speranza di vita e alfabetizzazione. Misurato così, in Africa l’Isu perde il 33,6 per cento del suo valore. È soprattutto la disparità nell’accesso alla salute e all’educazione che determina l’abbassamento nel valore dell’Isu. E questa dipende non solo da problemi di reddito, ma dal fatto di trovarsi nel posto sbagliato.
Facciamo l’esempio dell’elettricità: 621 milioni di africani dell’Africa sub-sahariana (cioè due terzi degli abitanti totali) non hanno accesso all’elettricità della rete nazionale. Ciò significa che devono spendere soldi per procurarsi carbone, diesel, kerosene per avere illuminazione o far funzionare gli elettrodomestici. Così finiscono per spendere 20 volte di più dei loro concittadini che vivono in quartieri ricchi e usufruiscono dell’elettricità della rete. Ancora peggio va per l’acqua: dei 760 milioni di persone residenti in paesi in via di sviluppo che non hanno accesso ad acqua pulita, 358 milioni sono africani, cioè più della metà del totale (e un terzo di tutti gli africani). Ciò comporta che milioni di persone si ammalano per malattie trasmesse attraverso l’acqua.
Le condizioni di chi fa impresa
Di fronte a questa situazione, non meraviglia il fatto che un sondaggio Gallup lo scorso anno abbia appurato che il 29 per cento degli africani desidera vivere in un luogo diverso da quello in cui si trova. Ciò non significa automaticamente che costoro vogliano emigrare all’estero: più comunemente, vogliono trasferirsi in città per usufruire dei servizi che non sono disponibili nei loro luoghi di residenza. Ma in città scatta la trappola degli slums: il 65 per cento degli africani urbanizzati vive in abitazioni informali che hanno scarso o nullo accesso ad acqua, elettricità, fognature. Visto che sono gente giovane che vuole migliorare la propria condizione, si lanciano nell’imprenditoria e nel commercio, ma soprattutto a livello informale: il dato più sopra citato di un 26 per cento di africani che ha aperto da poco un’impresa va letto in questa ottica: mica sono tutte start-up tecnologiche, sono quasi tutte piccole attività commerciali che non pagano le tasse e non possono chiedere prestiti alle banche.
Le condizioni per chi fa impresa sono migliorate un po’ negli ultimi anni, se uno sfoglia l’ultima edizione di Doing Business, il rapporto annuale della Banca Mondiale sui costi d’impresa nel mondo, scopre che l’anno scorso fra i 10 paesi che più hanno intrapreso riforme per facilitare le imprese ce ne sono 5 africani: Benin, Costa D’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Senegal e Togo. Ma nonostante questo, il continente nero resta agli ultimi posti per quanto riguarda le politiche e i regolamenti relativi alle imprese. Fra i 189 paesi analizzati, ben 40 appartenenti all’Africa sub-sahariana (che conta in tutto 49 Stati) si trovano oltre il 110mo posto della classifica. Quando si considera la media dell’insieme regionale rispetto ai singoli valori dei 189 paesi analizzati, l’Africa si classifica al 142simo posto per la difficoltà di commerciare attraverso le frontiere, al 139simo per i problemi nell’accesso all’elettricità, al 129simo per le complicazioni nel pagamento delle tasse, al 125simo per le lungaggini nel registrare le proprietà.
Appesi alla crescita cinese
In buona sostanza, la crescita economica dell’Africa negli ultimi 15 anni non deve nulla a un clima più favorevole all’imprenditoria, è basata principalmente sul boom dei prezzi delle materie prime. Un rallentamento accentuato della crescita cinese e degli altri paesi asiatici in via di industrializzazione, allo stato attuale delle cose, avrebbe effetti molto negativi sulla crescita dell’economia africana e sulla creazione di posti di lavoro. E diventerebbe il volano di un’emigrazione di massa verso l’Europa. Le zone economiche speciali, che in Cina hanno prodotto milioni di posti di lavoro, in Africa finora non hanno funzionato causa innumerevoli problemi ambientali.
Ha funzionato invece lo sviluppo economico promosso dall’alto, cioè da governi autoritari molto disciplinati, con un piano preciso da realizzare: Etiopia e Ruanda, paesi senza sbocco sul mare con un passato di genocidi e di carestie infernali, governati da ex guerriglieri che hanno preso il potere vent’anni fa, oggi vengono additati come miracoli economici dell’Africa. La prima è cresciuta in media del 10 per cento all’anno nell’ultimo decennio, il secondo dell’8 per cento, i loro rispettivi tassi di povertà sono passati dal 44 al 30 per cento e dal 40 al 24 per cento. La prima ha puntato sulle grandi infrastrutture, la seconda sull’economia dei servizi, entrambi sull’aumento di produttività dell’agricoltura. Pochi migranti arrivano da questi due paesi.
Ma le probabilità che la crescita continui non sono molte: in entrambi il coinvolgimento dello Stato nell’economia è arrivato al limite delle risorse disponibili, e la società non è ancora matura per prendere in mano la propria promozione. In Etiopia e Ruanda la liberalizzazione della politica non avrebbe come risultato più prosperità, ma cambi di regime improntati a rivalità etniche (hutu contro tutsi in Ruanda, amarici contro tigrini in Etiopia).
Soluzioni facili ai problemi dell’Africa, destinati a diventare problemi nostri, non ce ne sono. Ha scritto Giovanni Paolo II nella Redemptoris Missio che «lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi». Le omissioni, dei governanti locali e dei loro partner ex colonizzatori, prima o poi si pagano.