Cosa non torna nella direttiva Lamorgese che limita le manifestazioni no pass

Di Giovanni Boggero
15 Novembre 2021
Perché il tentativo di sottrarre in via generalizzata e preventiva alcuni luoghi pubblici allo svolgimento di riunioni va osservato con il dovuto scetticismo e con una certa preoccupazione

Dopo che le indiscrezioni giornalistiche ne avevano già sommariamente anticipato i contenuti, nella serata del 10 novembre scorso il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha diramato una direttiva a tutte le prefetture allo scopo di dare indicazioni sullo svolgimento delle manifestazioni di protesta contro le misure sanitarie in atto.

Il potere di limitare la libertà di riunione

A differenza di altre manifestazioni, queste ultime, specie poiché frequenti e reiterate, porrebbero, infatti, maggiori problemi di ordine e sicurezza pubblica, sarebbero d’ostacolo all’esercizio di altri diritti costituzionalmente garantiti e costituirebbero teatro di ripetute violazioni delle misure di prevenzione del contagio. Per questa serie di ragioni, pur ricordando come la sede appropriata per valutazioni sulle forme e sui modi attraverso i quali contemperare i diversi interessi in gioco resti il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica – cui partecipano, oltre al prefetto, sindaco del comune capoluogo, presidente della provincia, questore e i comandanti dei diversi corpi delle forze dell’ordine del territorio – il ministro, sulla scorta di analoga direttiva del ministro Roberto Maroni del gennaio 2009, si permette di sollecitare i prefetti a predisporre piani coordinati di controllo del territorio che non ignorino gli elementi di criticità sopra evidenziati.

A tal riguardo, in particolare, ai prefetti viene richiesto, in stretta collaborazione con i sindaci, di individuare non meglio specificate “aree urbane sensibili” e, poi, eventualmente di interdirne temporaneamente l’accesso ai fini di esercizio della libertà di riunione. Rispetto alle modalità con cui individuare tali aree – la direttiva Maroni distingueva, in realtà, tra “centri urbani” e “aree sensibili” – il ministro ricorda la necessità per i prefetti di conformarsi al principio di proporzionalità, dal momento che il diritto di riunirsi costituisce espressione fondamentale della vita democratica, che non può essere interamente sacrificato. In altre parole, i prefetti dovranno individuare quei luoghi “di particolare interesse per l’ordinato svolgimento della vita della comunità” – necessariamente un numero limitato – che possano ingenerare le criticità evidenziate. Su queste basi, saranno poi i Questori a vietare lo svolgimento delle riunioni in tali aree.

Il ruolo di prefetti, questori e sindaci

La direttiva, pur non essendo stata rivolta esplicitamente a questi ultimi, contiene quindi indicazioni anche sull’esercizio dei poteri questorili ex art. 18 TULPS, quale naturale conseguenza dell’attività prefettizia oggetto di direttiva. In particolare, indipendentemente dal fatto che essi vietino lo svolgimento di determinate manifestazioni nelle predette aree sensibili, essi potranno pur sempre conformare le modalità delle riunioni, disponendone lo svolgimento “in forma statica” anziché “dinamica” e, più in generale, tenendo conto delle misure anti-contagio. Da ultimo, la direttiva invita i questori a predisporre adeguati servizi di ordine pubblico per presidiare e vigilare in maniera più efficace sulle riunioni in oggetto.

Infine, il ministro ricorda come anche i sindaci, alla luce delle determinazioni degli anzidetti Comitati provinciali, possano far uso del proprio potere di ordinanza ex art. 50 TUEL, in qualità di autorità sanitarie locali e quindi restringere circolazione e viabilità in certe aree del territorio comunale. Soltanto in conclusione, la direttiva rammenta come le indicazioni in essa contenute possano essere d’ausilio all’attività dei prefetti e dei questori anche per manifestazioni di natura diversa rispetto a quelle sin qui menzionate.

Le manifestazioni no pass non sono vietate a priori, ma…

La direttiva sollecita una serie di osservazioni generali. Innanzitutto, occorre sottolineare come essa, a dispetto della grancassa giornalistica della vigilia, abbia conseguenze giuridicamente meno rilevanti di quelle annunciate. Non è, cioè, un atto che vieta a priori lo svolgimento delle riunioni in luogo pubblico se motivate dallo scopo di protesta contro le misure di contenimento del contagio. Un atto di questo tipo, del resto, sarebbe stato palesemente abnorme e incostituzionale. Allo stesso tempo, non è nemmeno un atto attraverso il quale il ministero procede a individuare esso stesso le aree corrispondenti ai centri urbani delle città, sottratte all’esercizio della libertà di riunione.

Anche in questo caso si sarebbe trattato di una direttiva adottata al di fuori dei presupposti di legge, che non riconoscono un simile potere al ministro degli Interni. Come ammette, d’altronde, la stessa direttiva, la sede istituzionale propria per le valutazioni del caso è, invece, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, chiamato ad esprimerle sulla base di uno spirito collaborativo tra amministrazioni statali e locali, volto a individuare misure proporzionate per contemperare interessi tra loro contrapposti (l’ordine e la sicurezza pubblica, la libertà di riunione e altri diritti costituzionalmente garantiti). Se, dunque, la Direttiva rimanda per le valutazioni in concreto al Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, in che cosa consiste davvero la sua novità?

La valutazione caso per caso

La direttiva ha essenzialmente lo scopo di ricordare ai prefetti e ai questori quali sono i poteri a loro disposizione nel tentativo di spingerli a utilizzarli. Il ministro sembra, in sostanza, lamentare un’inerzia da parte degli Uffici territoriali del governo, inerzia alla quale esso può legittimamente porre rimedio attraverso atti di indirizzo (l. 121/1981). Allo stesso tempo, però, l’atto di indirizzo non dovrebbe sconfinare nella predeterminazione delle decisioni prefettizie o questorili che vanno sempre vagliate in concreto a livello locale. A questo proposito, l’indirizzo a individuare “aree urbane sensibili” nelle quali l’esercizio della libertà di riunione andrà vietato non può costituire un obbligo giuridico, in assenza di disposizioni di legge o regolamentari che dispongano in questo senso, ossia che, al ricorrere di determinati presupposti, circoscrivano l’esercizio della libertà di riunione in luogo pubblico soltanto ad alcune aree per un tempo definito.

Peraltro, anche ove sussistente, una disposizione di tal genere sarebbe difficilmente proporzionata, perché sottrarrebbe alla valutazione caso per caso delle Amministrazioni coinvolte il contemperamento degli interessi. È lo stesso art. 17 Cost., del resto, a esigere che vi sia sempre un bilanciamento in concreto, che, come tale, non può essere operato a monte con atti recanti misure generali e preventive. Vero è che lo scorso anno, sempre nel contesto dello stato di emergenza, sulla scorta di una risalente giurisprudenza costituzionale (sent. n. 15/1982), il d.l. 19/2020 aveva autorizzato l’adozione di provvedimenti da parte del presidente del Consiglio dei ministri ed entro certi limiti anche da parte dei presidenti di Regione che limitassero o addirittura vietassero riunioni in luogo pubblico o aperto al pubblico (poi effettivamente adottati per l’intero territorio nazionale), mentre il d.l. 33/2020 ne aveva nuovamente consentito lo svolgimento fissando come unico limite il distanziamento di un metro, poi ulteriormente dettagliato da d.P.C.M. successivi (del 17 maggio 2020 e, ancora, del 24 ottobre 2020) che avevano previsto lo svolgimento delle riunioni in forma esclusivamente statica.

In altre parole, l’esempio del 2020 avrebbe potuto costituire un precedente idoneo a essere superato da misure ancor meno rispettose dell’art. 17 Cost., tali cioè da consentire direttamente al Ministro degli Interni con proprio atto di restringere in via generale e preventiva l’esercizio della libertà di riunione in certe aree.

La questione della “aree urbane sensibili”

Per fortuna, ciò non è accaduto, anche e principalmente perché mancava una norma di legge attributiva di un potere così pervasivo in capo al ministro, norma, invece, esistente con riguardo ad altre autorità pubbliche nella prima fase dell’emergenza e la cui applicazione ha pretermesso ogni valutazione in concreto sulla ragionevolezza dei divieti alle singole riunioni in luogo pubblico o aperto al pubblico. Tuttavia, con la direttiva del 10 novembre questa valutazione in concreto viene fatta salva soltanto in parte, poiché orientata dal vincolo a individuare “aree urbane sensibili”, cui far seguire provvedimenti di divieto (solo astrattamente qualificati come possibili).

In uno stato di diritto, simili ipotesi restrittive, oltre a dover essere pur sempre vagliate in concreto e caso per caso, dovrebbero, inoltre, essere previste in un atto normativo e non in una semplice direttiva ministeriale, trattandosi di ipotesi astratte e generali che innovano l’ordinamento giuridico, andando così a completare le disposizioni del TULPS e del suo regolamento di esecuzione. Vero è che il questore, già oggi, in base al TULPS, può stabilire luoghi e tempi di una certa riunione, ma si tratta di un potere il cui esercizio, subordinato all’evidenza di comprovati motivi di sicurezza, avviene caso per caso e impedisce, invece, l’assunzione di determinazioni generali e preventive in sede prefettizia.

Tutela della salute e luoghi delle manifestazioni

Allo stesso modo, è dubbio che un atto del questore possa stabilire attraverso quali modalità “espressive” – statiche o dinamiche – possa avvenire una riunione in luogo pubblico; non a caso, tale previsione era stata introdotta in via uniforme da un atto amministrativo generale, come il d.P.C.M. nell’ottobre 2020 (anche se, assai più propriamente, avrebbe già allora dovuto essere contenuta quantomeno in un decreto-legge). Per il resto, nell’orientare l’esercizio della discrezionalità dei prefetti, non sembrano avere pregio i motivi che renderebbero necessaria la direttiva: se è vero che la tutela della salute rientra nel concetto di ordine e sicurezza pubblica, la natura dei luoghi in cui le riunioni si svolgono, tuttavia, non incide sulle violazioni delle misure anti-contagio, potendo esse verificarsi ovunque e, spettando, semmai, in tali casi, all’autorità di pubblica sicurezza il compito, a posteriori e come extrema ratio, di sciogliere la riunione ove gli illeciti siano reiterati; d’altro canto, i diritti degli altri cittadini, che pure vanno tenuti in considerazione nel bilanciamento, non possono prevalere in maniera assoluta su quelli dei manifestanti a riunirsi in alcune aree, anche non periferiche, di un centro urbano.

A tal proposito, spetta prima ai Comitati provinciali e poi alle questure valutare, dopo il preavviso dato dagli organizzatori, in che modo contemperare in concreto i diritti di tutti, prevedere tempi e luoghi alternativi della riunione e, soltanto ove la minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica sia reale, vietare le riunioni in via preventiva, ma, anche qui, pur sempre caso per caso. Il tentativo di sottrarre in via generalizzata e preventiva alcuni luoghi pubblici allo svolgimento di riunioni va, quindi, osservato con il dovuto scetticismo e con una certa preoccupazione, perché mira a prefigurare decisioni in concreto che difficilmente potranno essere ragionevoli e proporzionate.

L’autore di questo articolo, Giovanni Boggero, è ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino. Ha scritto per Il Foglio e Il Riformista

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1 commento

  1. ENRICO VENTURA

    È quasi (quasi) divertente vedere come i sessantottini, ora finalmente al potere, si siano così bene integrati nel sistema da vietare le manifestazioni di piazza; proprio loro che in piazza ci andavano ogni giorno e di macerie ne lasciavano assai. Se il mitici anno 60/70 sono troppo lontani allora basta tornare al 2001, G8 di Genova, oppure riguardare le foto di corso Buenos Aires a Milano dopo le “manifestazioni” di autonomi e gruppi birbaccioni vari.
    Come è possibile che in questo Paese, in cui si sorvola beatamente su colpi di Stato soft dell’ultimo decennio di cui nessuno rende conto e nessuno protesta più di quel minimo sindacale, mo’ spuntano dal nulla quattro idioti violenti che si scagliano anima e corpo contro un certificato?

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