Coraggio, partigiano Guccini, sai fare meglio di così
Francesco Guccini fa infuriare Giorgia Meloni con una versione all’olio di ricino di Bella ciao. In un video realizzato in occasione di #iorestolibero, manifestazione promossa per questo 25 aprile, il cantautore emiliano, senza troppi giri di parole, indica la leader di Fratelli d’Italia – ovviamente insieme a Matteo Salvini e Silvio Berlusconi – come il nuovo «invasore». «Partigiano/ portali via/ come il 25 april», intona un imbarazzante e affaticatissimo Guccini.
La replica della Meloni non si fa attendere: «Cosa intende esattamente Francesco Guccini […]? Che dovrebbero farci i processi sommari, appenderci a testa in giù, rasarci i capelli ed esporci alla pubblica gogna? Cosa intende quando dice “oh partigiano portali via”? Dove dovrebbero portarci questi partigiani? Al confino, in galera, dove?». «Questa – scrive Meloni – si chiama istigazione all’odio, cari compagni».
Al di là della querelle, sorprende e amareggia vedere un poeta ridotto a macchietta da avanspettacolo, per giunta su commissione. Non foss’altro perché il monito di Eskimo, sua celebre canzone, non può non valere anche per lui:
«Bisogna saper scegliere in tempo/ non arrivarci per contrarietà».
Già nel giugno del 2018, intervistato per Tracce da Massimo Bernardini, Guccini confidava di essere ormai giunto alla «pedana di lancio» («Non me ne restano ancora tanti. Me ne dai 10? Fanno 88; dammene 12 e al massimo arrivo a 90»). E ricordando un cugino insegnante, recentemente morto all’età di 72 anni, vedeva solo tenebre:
«Dov’è finito? Chi lo sa. Per me si finisce lì e buonanotte».
Non avremmo mai voluto scriverlo, ma è la prova che lo scetticismo spinto, quando diventa Weltanschauung e catechismo, arriva a trasformare anche i poeti in clown afoni e melanconici; mentre l’ideologia “à la bellaciao” baderà a sottrarre ogni ispirazione e a invecchiarli prima del tempo.
LA RISPOSTA DI CHIEFFO
L’interesse di chi ama veramente il cantautore di Pavana è, ovviamente, tutto e soltanto teologico. Molti ricordano ancora un concerto di beneficenza, a Carpi, con Guccini e Claudio Chieffo sul palco. Era il maggio del 1999. A metà concerto, conversando col pubblico, l’autore de L’avvelenata e di Dio è morto buttò lì quello che può essere considerato il leitmotiv della sua vita:
«Le risposte non le avremo mai, ma non bisogna mai smettere di chiedere».
Sorridendo e imbracciando la chitarra, Chieffo rispose con la disarmante semplicità di Lui m’ha dato i cieli, suo celebre brano, perché – disse presentandolo – «la domanda è importantissima, ma nella mia storia c’è una risposta ancora più affascinante della stessa domanda».
LA LETTERA DI SOCCI
Nel 2015, Antonio Socci, chiamato in causa proprio da Guccini, in una lettera aperta gli rimproverò di avere delle fede «un’idea sbagliata, quasi che si nascesse credenti o atei, come si nasce alti o bassi per natura». Per lo scrittore toscano la fede non solo è «un’esperienza per tutti» ma «la festa della ragione». Socci ricordò a Guccini (che pure confessa di aver molto amato: «A 18 anni, al liceo, scrissi il mio primo volantino, firmato “Comunione e liberazione”, tutto con brani delle tue canzoni») che l’atteggiamento razionale «è quello di chi vuol capire e verificare». Quello di chi «ascolta i testimoni, guarda le immagini di quel mondo, infine parte e va a vedere quella nuova terra di persona». Prendendo spunto dalla gucciniana L’isola non trovata, Socci invitava il cantautore a scuotersi dal torpore, a farsi sorprendere dal Mistero, da quella “sola speranza” che Montale chiamava “imprevisto”. Certo, in questo 25 aprile l’uscita canora di Guccini, davvero misera e sconcertante, non fa ben sperare. Ma non è ancora finita, e forse non tutto è perduto.
LA CANZONE (INCOMPIUTA) SU GESÙ
Del resto sarebbe interessante – e da leggere come richiesta di aiuto, seppur appena abbozzata – cogliere tutti gli “ami” lanciati verso il sacro da Francesco Guccini. Come quella volta che, intervistato dal teologo Brunetto Salvarani per Vita e Pensiero, il cantautore parlò del progetto di una canzone sulla figura di Gesù:
«Avrei voluto farla ma non ci sono riuscito. Non è detto che non la faccia, prima o poi».
Per poi aggiungere:
«Però ho perso i riferimenti: avevo trovato un paio di articoli sui giornali su questo argomento […] Erano su Gesù che ride. Avevo anche scritto alcuni versi, su un Gesù con le mani da artigiano e la veste unta».
Certo, se aver desiderato scrivere quella canzone ha rivelato un anelito rispettabilissimo e perfino incoraggiante, non ci si può non chiedere come un navigato uomo di lettere – «il più colto tra i cantautori», secondo Umberto Eco – abbia potuto considerare un ostacolo la perdita di due ritagli di giornale (sic!). Insomma, quale Gesù avrebbe finito per cantare Francesco Guccini, se perfino Kafka, sommo cantore dell’angoscia esistenziale, a chi gli chiedeva di Cristo rispondeva: «È un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarci»? Chissà.
IL BRANO PRO ABORTO
«Ma che piccola storia ignobile mi tocca raccontare…».
Così cantava Guccini nel ’76, descrivendo imbarazzi e lessico famigliare dell’aborto clandestino della diciottenne di casa. Nel ’78 arriverà poi la famigerata legge 194, a cui il suo brano – lo attestano resoconti e archivi dell’epoca – contribuì non poco a preparare la strada. Nei 40 anni successivi a Piccola storia ignobile», questo il titolo della canzone pro aborto, Guccini non è più tornato sul tema. Da allora l’Italia ha contato qualcosa come 6 milioni di vittime innocenti. Sarebbe interessante sapere se quella vecchia canzone è da considerare la sua ultima parola sull’aborto, oppure se, con il tempo, in Guccini è affiorato qualche ripensamento, o almeno qualche distinguo. Finora, nella sua claque di “pacifisti”, non si è trovato nessuno disposto a interrogare il cantautore su quello che santa Teresa di Calcutta definiva, appunto, «il più grande distruttore della pace».
UN “PADRE” SCONOSCIUTO
La causa prima del pessimismo che accompagna da sempre il cantautore-poeta va cercata nella sua difficoltà di sperimentare la paternità di Dio. Lo provano le parole confidate ad Antonio Gnoli su Repubblica. Alla domanda sul padre Ferruccio, Guccini risponde in modo raggelante: «Poca roba». E ancora:
«Fu un uomo duro […] Scarno di parole e di affetti. […] Non è mai venuto a sentire un mio concerto. Io non l’ho mai incoraggiato e lui ha sempre fatto finta di niente».
È da cercare qui lo snodo di tanto ostentato scetticismo, di tanta strisciante amarezza, di tanta mancanza d’amore, anche verso se stesso:
«Non ho orgoglio di me, né autostima. Deve essere stata l’educazione repressiva di mio padre».
Note biografiche che rivelano quanto lo smisurato abbraccio del Padre misericordioso – che scorgendo il figlio «corse, gli si gettò al collo e lo baciò» – per Guccini rimane una realtà assolutamente sconosciuta. Pur essendo la chiave di tutto.
A CHE PUNTO È LA NOTTE?
Non rimane che sperare che l’“ossessione metafisica” gucciniana, quella che gorgoglia sotto tanti suoi versi agostiniani («Ed io, burattinaio di parole/ perché mi perdo dietro a un primo sole/ perché mi prende quest’assurda nostalgia?»), non prenda all’improvviso il sopravvento. Rovesciando il tavolo. Sarebbe un bel giorno, il suo vero 25 aprile, la sua vera festa di “Liberazione”. Ma intanto il tempo fugge. «Shomér ma mi-llailah?», cantava Guccini citando il profeta Isaia: «Sentinella, a che punto è la notte?».
Foto Ansa
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