
E comunque Conte gliele ha cantate a Draghi

Aveva promesso che gliele avrebbe cantate. Perché questa volta si era passato il segno. Perché così non si può più andare avanti.
Già aveva dovuto accettare che gli sottraesse la poltrona da sotto le avvocatizie terga. Già aveva dovuto sopportare gli sberleffi e le ironie dei giornali che il giorno prima lo trattavano come l’erede di Prodi e il giorno dopo come un Ciampolillo qualsiasi. Il giorno prima come Churchill e il giorno dopo come Chamberlain.
Ma questa volta aveva promesso che gliele avrebbe cantate. Appena fosse tornato dal viaggio ad Ankara. Appena fosse tornato dalla Marmolada.
Perché poi c’era da chiarire quella faccenda della richiesta di farlo fuori. A lui. Proprio a lui. Chiacchiera messa in giro dal garante e da quell’altro pettegolo del sociologo.
Quindi bisognava sgomberare il campo dagli equivoci. Per una questione di onestà. Di dignità, di decoro, d’onore. Non ultimo per il sospetto che la mossa di Luigino fosse stata preparata e studiata, da mesi, forse. Senza che lui se ne fosse accorto, ancora una volta.
E poi aveva promesso che gliele avrebbe cantate per cancellare una volta per tutte quella nomea di “uomo dei penultimatum”, di re tentenna, di compilatore di statuti seicenteschi.
E così aveva promesso che gliele avrebbe cantate. Perché “o quello dà rassicurazioni o noi ce ne andiamo. Siamo già sulla porta. Praticamente siamo già usciti. Siamo già in macchina. Ancora un attimo e partiamo. Abbiamo già acceso l’auto”.
E allora si sono visti e lui gli ha espresso il suo «forte disagio politico». E gli ha dato un documento di nove punti in-de-ro-ga-bi-li. Da questi non si torna indietro, cascasse il mondo. Sono una linea rossa. O così o la prossima volta…
Dai, è andata benone. Mario ha detto che, appena ha un pochino di tempo, farà sapere.
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