
Tentar (un giudizio) non nuoce
Perché servono “popolari del presente”

Si è discusso parecchio in queste settimane sul Manifesto dei “Conservatori del futuro”, presentato a Roma dall’On. Lorenzo Malagola, con le associazioni Labora, Alleanza Cattolica, Farefuturo, Nazione futura e Centro Studi Livatino. Anche Tempi ha dedicato molto spazio al Manifesto, ai suoi contenuti e ai suoi protagonisti. Apprezzo il tentativo di chi cerca di dare un contenuto culturale alla propria posizione politica, soprattutto se fatto da persone che stimo e considero amiche, ma devo dire che in questo caso né l’impostazione né i “dieci pilastri su cui costruire il futuro” in cui si declina il manifesto mi convincono e proverò in queste righe a spiegare perché.
Innanzitutto non mi convince l’impostazione culturale, ovvero l’idea espressa in premessa che esista una sorta di “istinto” conservatore che si declinerebbe nel “custodire i valori permanenti che hanno garantito la stabilità e la prosperità delle società nel tempo”. Ora, a parte il fatto che ciascuno può giudicare quanto i valori citati – la tradizione, il sacro, la centralità della famiglia, la sacralità della vita, il rispetto dell’autorità – siano effettivamente “custoditi” oggi dal popolo, a me pare che la questione centrale sia l’idea che si ha dei valori. Essi infatti stanno all’origine del percorso in cui si riconosce un popolo, o stanno alla fine come lascito di quel percorso? Credo che il problema oggi stia proprio qui: i valori possono essere ridotti sostanzialmente a una tradizione, a un esito, a una eredità del passato? O abbiamo bisogno di riconoscerci come popolo in qualcosa che abbia una forza presente, che sia vivo nell’esperienza dell’oggi, di cui si sia consapevoli e si riconosca il significato? Altrimenti il “conservare” assomiglia più ad “adorare le ceneri piuttosto che custodire il fuoco”, secondo il famoso aforisma di Gustav Mahler.
Non solo perché questi valori devono essere interpretati e applicati nel presente, tenendo conto delle sfide e delle opportunità del momento, ma soprattutto perché, se essi non si incarnano nell’oggi, si cristallizzano e rischiano di imboccare una deriva ideologica, come a me pare di vedere talvolta nei partiti di destra e anche in un certo mondo cattolico. Conservando la forma, ma perdendo la sostanza vitale che anima quella forma e la rende capace di plasmare le sfide del tempo, i valori diventano come fiori recisi: dopo un po’ rinsecchiscono.
Vengo ad alcuni punti di merito.
Innanzitutto l’idea di persona: dire che la persona “preesiste alla società”, come si dice nel Manifesto, è equivoco. Un conto è dire che preesiste allo Stato e al mercato, ma come dice il Dizionario della Dottrina Sociale, persona e società sono strettamente congiunte e interdipendenti: “la riflessione elaborata dalla Gaudium et spes, facendo tesoro di precedenti documenti pontifici, afferma che «dal carattere sociale dell’uomo appare evidente come il perfezionamento della persona umana e lo sviluppo della stessa società sono tra loro interdipendenti. Infatti, la persona umana, che di natura sua ha assolutamente bisogno di una vita sociale, è e deve essere principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali» (GS, 25). L’uomo per sua natura vi è considerato come un essere sociale, che può vivere in pienezza la propria vocazione – comprendendo il senso e il fine della sua esistenza – unicamente in rapporto con gli altri (cfr. GS, 12). La dottrina sociale della Chiesa sostiene che la persona, in quanto imago Dei, esiste in relazione all’altro e che la società è «un insieme di persone legate in modo organico da un principio di unità che supera ognuno di loro» (CCC, 1880) in vista del compimento di ciascuno” [Dizionario di Dottrina Sociale della Chiesa, voce Persona e Società di Angelo Scola]. Perdere questa dimensione relazione, che sta all’origine della persona umana, fa scivolare presto, anche se si sostiene il contrario, dal concetto di persona a quello di individuo e quindi nell’individualismo. Proprio in questa distinzione fra individuo e persona sta la radice della differenza culturale tra liberali e conservatori da un lato, popolari e cattolici dall’altro.
Anche l’idea di Patria, così come descritta, non mi convince. A parte il fatto che non posso dimenticare quanto ci disse profeticamente Giovanni Paolo II tanti anni fa: “Voi siete come me, siete senza Patria”, il cattolico per definizione è universale: la dottrina sociale della Chiesa fin dalla Rerum Novarum del 1891 richiama il “riconoscimento di una comune originaria fraternità universale”, ripreso e sviluppato da Papa Francesco nella Fratelli tutti. Dire che “i patrioti pongono l’interesse della Nazione al di sopra di divisioni di parte o di partito” mi suona come una deriva verso il nazionalismo che a me, europeista da sempre come De Gasperi, preoccupa non poco, perché del nazionalismo abbiamo visto i disastri nel novecento, e soprattutto mi sembra fuori della storia. Oggi abbiamo bisogno di più Europa, certo migliore, ma non di più Stati nazionali.
Infine sul futuro il manifesto afferma che “il conservatorismo non ha paura del futuro”. Dai contenuti però un po’ traspare il contrario. Plasmare il futuro presuppone una visione dinamica della società che contrasta con la mera conservazione. Ancor più in un tempo in cui sfide decisive per il futuro dell’umanità come l’intelligenza artificiale, il transumanesimo, gli squilibri della globalizzazione e della demografia, i cambiamenti climatici e negli equilibri strategici e geopolitici pongono interrogativi e richiedono scelte che non possono essere affrontate con lo sguardo rivolto al passato, ma richiedono soluzioni nuove, creative e responsabili.
Per queste ragioni penso che avremmo più bisogno di popolari dell’oggi che di conservatori del futuro.
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