Con chi sta il Qatar? Alleato con tutti e con nessuno

Di Rodolfo Casadei
06 Novembre 2023
Finanzia Hamas ma è alleato degli Stati Uniti perché sa che tutti hanno bisogno di lui. Indagine su uno "Stato oscillante opportunista"
Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani in visita a Theran, 2020 (Ansa)
Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani in visita a Theran, 2020 (Ansa)

Per disorientare qualcuno che cerca di informarsi sui contorni della crisi aperta dall’aggressione di Hamas a Israele il 7 ottobre e dalla reazione israeliana e di capire in quale contesto internazionale si collochi, basta mettersi a scrivere o a parlare del Qatar.

È il paese che dal 2012 ospita la dirigenza politica di Hamas, e che da due decenni finanzia, sia segretamente che apertamente, l’organizzazione, all’estero come nella Striscia di Gaza. Ma è anche il paese che ospita la più grande base militare Usa in Medio Oriente e che non più tardi del marzo 2022 è stato ufficialmente designato, con direttiva presidenziale a firma di Joe Biden, “Major non-Nato ally”, cioè alleato non-Nato di prima grandezza degli Stati Uniti. E pochi giorni fa il consigliere per la sicurezza nazionale di Israele Tzachi Hanegbi ha twittato: «Sono lieto di dire che il Qatar sta diventando una parte e un attore essenziale nella facilitazione delle soluzioni umanitarie. Gli sforzi diplomatici del Qatar sono cruciali in questo momento».

A questo punto il giovane o la giovane volonterosi che si erano messi ad ascoltare i podcast di Cecilia Sala o addirittura avevano comprato un libro di Benny Morris credendo di potersi così fare un’idea solidamente fondata su radici e attualità di quello che sta accadendo, tornano ai loro precedenti influencer e lasciano perdere tutta la sanguinosa faccenda.

Uno Stato oscillante opportunista

Ma insomma, con chi sta il Qatar? Con questi o con quelli? La risposta non è difficile da capire, ma è molto molto difficile da accettare. Col cuore il Qatar sta con “quelli”, perché è governato da una famiglia di emiri arabi musulmani sunniti che da sempre simpatizza per Fratelli Musulmani e affini, ma nella realtà politica effettuale gioca fra le linee.

Hal Brands, studioso americano di relazioni internazionali che scrive su Foreign Policy, lo definirebbe un “opportunistic swing state”, cioè uno stato oscillante opportunista. Come la Turchia, l’India, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Indonesia, ecc.: quegli stati legati economicamente e militarmente all’Occidente, ma ideologicamente vicini agli avversari dell’Occidente (Cina, Russia, Iran, Corea del Nord) che cercano di trarre il massimo profitto sotto l’aspetto strategico dalla loro posizione all’incrocio fra i due fronti contrapposti.

Hanno capito – chi prima, chi dopo – che hanno più da guadagnare in termini di stabilità politica, di promozione dei propri interessi nazionali e di status internazionale dall’oscillazione fra le due sponde che da una scelta di campo decisa e irreversibile. Perché hanno capito una cosa fondamentale: che i contendenti della nuova guerra fredda/calda hanno bisogno di loro più di quanto loro abbiano bisogno di questi e di quelli. Detto in altre parole: il Qatar può permettersi di essere alleato contemporaneamente ad Hamas e agli Stati Uniti perché americani e israeliani non possono fare a meno dei servizi della famiglia al-Thani, e perciò fanno buon viso a cattivo gioco.

Il ruolo di mediatore

Negli ultimi vent’anni il Qatar si è specializzato nelle mediazioni internazionali impossibili non in forza di una neutralità alla svizzera, ma in forza di relazioni solide e strutturate con entrambi i contendenti ai quali si offriva come mediatore. Qualcuno ricorderà che nelle primissime fasi della crisi il turco Erdogan, presidente di un paese che fa parte della Nato, si era offerto come mediatore per il rilascio degli ostaggi israeliani, che lui avrebbe riportato a casa in cambio di un cessate il fuoco che avvantaggiava evidentemente Hamas, di cui sarebbe diventato ipso facto il protettore.

Aspirazione velleitaria ad appropriarsi del ruolo che da anni è del Qatar, che lo ha battuto in scioltezza: nel giro di tre settimane dall’inizio della crisi Doha ha ottenuto la liberazione prima di due ostaggi con doppio passaporto americano-israeliano, poi l’apertura del valico di Rafah con l’Egitto per l’esfiltrazione di 500 palestinesi con doppio passaporto.

Nel settembre scorso il Qatar ha contribuito a ottenere il rilascio di cinque americani detenuti in Iran, agendo come banchiere per il trasferimento di 6 miliardi di dollari iraniani che stavano congelati in Corea.

All’inizio di ottobre, prima che scoppiasse la nuova crisi israelo-palestinese, era nel bel mezzo di un tentativo di liberare ostaggi ucraini (prevalentemente bambini) detenuti in Russia.

Ha anche svolto un ruolo di mediazione nei colloqui tra Stati Uniti e Nicaragua che potrebbero portare a nuove elezioni in cambio della riduzione delle sanzioni.

Coi talebani a Kabul

A maggio, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, primo ministro del Qatar, ha tenuto colloqui segreti con il leader supremo dei talebani a Kandahar nel tentativo di compiere progressi sulla questione del riconoscimento internazionale del governo talebano dell’Afghanistan. E a questo proposito non si può non ricordare che è stato allo Sheraton Grand Doha nel febbraio 2020 che gli Stati Uniti e i talebani hanno negoziato il ritiro americano dall’Afghanistan, che avrebbe portato alla caduta di Kabul 17 mesi dopo. Col permesso americano nel 2013 il Qatar aveva concesso ai talebani di aprire un ufficio di rappresentanza a Doha (che sarebbe servito alle trattative), e pare, stando a quel che dicono i qatarini, che anche il trasferimento da Damasco a Doha nel 2012 della dirigenza politica di Hamas sia avvenuta con la tacita approvazione degli Usa.

Di nuovo il Qatar è risultato prezioso quando si è trattato di porre rimedio alle conseguenze della catastrofica ritirata americana da Kabul: senza la mediazione degli emiri non avrebbero salvato la pelle tanti afghani al servizio degli americani che sono riusciti a lasciare il paese senza che fosse torto loro un capello, né se la caverebbero gli americani rimasti in Afghanistan dopo l’esodo delle truppe occidentali.

A tutto ciò si aggiunga, solo per restare a tempi recenti, il ruolo di mediatore fra Usa e Iran sulla questione del nucleare iraniano che il Qatar ha svolto l’anno scorso, quello che sta svolgendo in Libano per lo sblocco della paralisi istituzionale e in Sudan per un cessate il fuoco fra i governativi del presidente Abdel Fattah al-Burhan e i ribelli delle milizie Rsf del comandante Mohamed Hamdan “Hemedti” Dagalo. Mentre in tempi un po’ più lontani (2015) Doha ha cercato di mediare niente meno che fra Hamas e Israele, con l’obiettivo di arrivare a un armistizio di cinque o dieci anni fra le due parti.

Perché il Qatar finanzia Hamas

I rapporti fra Gerusalemme e Doha sono stati sempre altalenanti, ma non si sono mai interrotti. Il Qatar ha ospitato un ufficio commerciale di Israele dal 1996 fino al 2009, quando ha rotto i rapporti a causa dell’Operazione Piombo Fuso nella Striscia di Gaza.

Le relazioni sono riprese a partire dal 2014 quando, sulla base di un accordo che vedeva coinvolti oltre al governo israeliano anche gli Stati Uniti e le Nazioni Unite, il Qatar si è offerto di pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici nella Striscia di Gaza, di versare 10 milioni di dollari al mese a Israele per forniture di carburante per i generatori civili e di fornire aiuti alle famiglie più povere, per un totale di 30 milioni di dollari al mese.

Israele accettò l’offerta, pur sapendo che una parte delle cifre stanziate sarebbe finita nelle tasche di Hamas (attraverso alcune delle “famiglie bisognose” inserite nelle liste dei beneficiari), e le spiegazioni che si danno di questa decisione sono molteplici: migliorare le condizioni di vita degli abitanti della Striscia in modo che trovassero meno attraente l’opzione del martirio in attentati contro gli israeliani; mantenere in vita il dualismo Hamas-Al Fatah, senza che una diventasse troppo più forte dell’altra; ridurre l’influenza iraniana su Hamas permettendo che aumentasse quella del Qatar.

Quest’ultimo obiettivo è decisamente fallito, e se ne ha la controprova sul versante qatarino: nel recente passato (estate scorsa) alcuni versamenti finanziari sono stati sospesi per il motivo che Hamas appariva troppo condizionata dall’influenza iraniana.

Meglio noi di loro

Il Qatar ha sempre addotto due giustificazioni davanti agli alleati occidentali che gli chiedevano conto dei rapporti con Hamas e altri gruppi islamisti: la prima è che attraverso i rapporti li controllavano e ne limitavano le azioni sconsiderate, la seconda è che se non avessero tenuto tali rapporti, le fazioni islamiste sarebbero state completamente subalterne agli interessi iraniani, e che di conseguenza per il rilascio di prigionieri e ostaggi o per transazioni di varia natura Usa e Israele si sarebbero dovuti rivolgere direttamente all’Iran.

E adesso che Hamas ha agito su evidenti istruzioni di Tehran? Il segretario di Stato americano Blinken ha fatto sapere che gli al-Thani hanno promesso di rivedere le loro relazioni con Hamas dopo che la crisi attuale sarà risolta. Potrebbe succedere che i dirigenti del gruppo palestinese debbano fare le valigie e lasciare Doha per qualche altra capitale compiacente (Tehran?). Tutti i governi arabi stanno rampognando Hamas con l’identico rimprovero: “Avete visto cosa succede a dare retta agli iraniani?”. In più degli altri, il Qatar (che afferma di avere speso fino ad oggi 2 miliardi e mezzo di dollari per la Striscia di Gaza) vorrà far sapere che i suoi protetti che pretendono di fare di testa loro non sono più protetti. Devono cambiare aria e comprarsi un giubbotto antiproiettile.

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