Compagni in onda

Di Manes Enzo
18 Gennaio 2007
Gr e microfoni aperti a senso unico. I trent'anni di trincea che partirono dallo studio-sgabuzzino di Milano. Dalle barricate anti-Cavaliere alla sospetta vicinanza ai Ds, Massimo Rebotti racconta la "sua" Radio popolare

La trincea democratica correva sulla frequenza dei 101.5. Con il cursore di Radio Popolare che si alzava nell’autunno del 1976 dallo “sgabuzzino” di corso Buenos Aires, a Milano. E la linea la dava una redazione-collettivo, espressione della più ferrea logica della lottizzazione partitica: quanto avevano sgomitato le sigle dell’allora ultrasinistra (Avanguardia operaia, Lotta continua, Movimento lavoratori per il socialismo, Pdup) per imporre in radio i propri compagni. Baruffe che certo non spaventavano le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria abituate com’erano a memorabili confronti per disputarsi la testa dei cortei. Così il manuale Cencelli si consumava con lo sguardo benevolo della sinistra sindacale cislina e spezzoni del partito socialista, soprattutto di area lombardiana.
Trent’anni dopo, Radio Popolare è ancora viva e lotta insieme a noi. Ha superato crisi, scazzi e musica andina a sfinimento. Ha salutato con gioia il tramonto dei gruppi. Ha cambiato frequenza (107.6) dopo diverse stagioni di doppio presidio via etere. Ha messo insieme qualche trasloco necessario e non pochi addii eccellenti, qualcuno più doloroso di altri, vedi Gialappa’s, Sergio Ferrentino, Paolo Hutter. Dal 1991 è una spa con il pacchetto azionario di maggioranza saldamente nelle mani della cooperativa dei lavoratori. Conta su circa 14 mila azionisti e 15 mila abbonati che ogni anno ritoccano la propria quota a sostegno dell’emittente gauchista. Anche per questo le casse sono meno vuote di un tempo e Radio Popolare può permettersi una sede di 2 mila metri quadrati, un auditorium di 80 posti intitolato a Demetrio Stratos, voce degli sperimentali Area, e una forza lavoro di oltre 50 militanti al microfono.

Identità laica di governo
Massimo Rebotti ne è dal 2004 il direttore. Dopo la lunghissima stagione di Piero Scaramucci e quella molto più breve, appena qualche mese di patimenti e incomprensioni, di Ivan Berni, già giornalista di punta dell’edizione milanese di Repubblica. Rebotti è appena riemerso da un’apnea lunga due anni. Ha guidato la radio nella durissima campagna elettorale contro il bau bau Berlusconi. Ora che l’aria è tornata respirabile si trova nella non facile situazione di dover fare una radio di governo. «Certo che siamo contenti della caduta di Berlusconi e che guardiamo con un po’ di serenità alla nuova stagione politica. Però, quando c’è da colpire si colpisce. Da sinistra, ovvio. Anche se quelli che ci vogliono meno bene dicono che siamo diventati il megafono dei Democratici di Sinistra. Quasi dei riformisti». A sentire notiziari, approfondimenti, microfoni aperti ci pare la radio di sempre: sinistra sinistra, insomma. Con la sua visione delle cose, con Hamas che nei servizi mai è definita organizzazione terroristica. Con Eta che si merita uguale trattamento. Fa il suo mestiere di radio clericale per un pubblico che vuole ascoltare quelle prediche. Rebotti non ci sta: «Abbiamo la nostra identità e le nostre convinzioni. Ci mancherebbe altro. Però quello che proviamo a fare tutti i giorni è un’informazione assolutamente laica…». Chi chiama però il più delle volte riporta in carreggiata. «Credo che pure i nostri ascoltatori siano sufficientemente laici. Poi ci sono i professionisti della telefonata, quelli che sono prontissimi a prendere la linea e a dire la loro qualsiasi sia l’argomento del microfono aperto».

Uno si merita gli ascoltatori che ha
Peccato allora per quelle voci… peccato per quella volta di diversi anni fa quando Umberto Gay, altro conduttore storico di Rp, decise di aprire i telefoni parlando delle morti bianche dei bambini, dei frugoletti che si addormentano la sera e misteriosamente non si svegliano al mattino. Ne venne fuori un’ora e mezza di telefonate anche commoventi. Di testimonianze mozzafiato. Di parole sincere. Sul finire, ecco i chierici. I moralisti in agguato che fino a quel momento non avevano avuto cittadinanza. Attaccano duro, definiscono intimista la trasmissione. Dicono che Radio Popolare non deve parlare di certe cose, sprecare tempo così anziché occuparsi di lotte operaie, di conflitto, di rifiuto del lavoro. Il giornalista giustamente si lasciò andare a un commento amaro. Però, a dirla tutta, un certo concorso di colpa rimane. Uno si merita gli ascoltatori che ha.
D’altronde, se tutti i giorni si veniva bombardati da trasmissioni del tipo Corrispondenze operaie c’era poco da farsi illusioni. Altri tempi, d’accordo. Però la sensazione forte è che tutto sommato siamo ancora in quell’orizzonte lì, più pregiudizio che giudizio. «Abbiamo posizioni molto chiare e siamo una radio aggressiva. Sappiamo bene di poter essere respingenti però chi ci ascolta con una certa fedeltà non può non avvertire come negli ultimi anni si sia fatto largo un modo di guardare le circostanze della vita, non solo perciò quelle politiche, con categorie altre rispetto a quelle canoniche della sinistra, penso soprattutto ai grandi temi valoriali». Infatti, la radio aveva capito che il referendum sulla fecondazione assistita non avrebbe raggiunto il quorum, «certo non potevamo immaginare quel tracollo, però dalle telefonate di ascoltatori di sinistra, anche non cattolici, si manifestavano molti dubbi».

La Chiesa che costringe a ragionare
Già, i cattolici, la Chiesa, Benedetto XVI. Questo è un Papa che fa lavorare la redazione. Che la mette a dura prova. Che la costringe a ragionare. «Non c’è dubbio sul fatto che Ratzinger sia un pontefice di grande personalità e autorevolezza, capace di affrontare con forza questioni cruciali. Devo dire con franchezza che il più delle volte non condividiamo ciò che esprime a proposito di centralità della famiglia, Pacs, contraccezione e più in generale vediamo nella sua idea di Chiesa un pericolo per la laicità dello Stato. Un giudizio che viene condiviso da larga parte degli ascoltatori, anche di orientamento cattolico, molto probabilmente cattolici di sinistra. Anche se capisco che schematizzare così non sempre funziona». Non funziona ma serve alla bisogna. Allora Comunione e Liberazione viene raccontata associandola alla Compagnia delle Opere. Affari, affari e ancora affari. Potere, potere e ancora potere. Se poi ci mettiamo che la radio agisce nella regione del governatore Formigoni il cerchio si chiude. «Parliamo, parliamo della Compagnia. Le occasioni certo non mancano. In passato il modello formigoniano è stato di sicuro successo. Credo che oggi sia in fase calante. Comunque stando in Lombardia ed essendo Radio Popolare un’esperienza nata e divenuta adulta qui, con la politica di Cl ci misuriamo quasi tutti i giorni. Poi seguiamo il Meeting di Rimini. Ma ci concentriamo solo sugli aspetti politici ed economici. Mi spiego meglio. Quando due anni fa si scrisse che al Meeting scoppiava la pace fra Cl e Azione Cattolica, decidemmo di non occuparci di quella notizia, pur riconoscendo che da un punto di vista ecclesiale fosse un passaggio significativo, per il peso che hanno le due realtà». Che la presenza di cl un po’ infastidisca la radio è vero. Non la presero bene quelli della redazione cultura quando Giovanni Testori si avvicinò al movimento di don Giussani. E nel ripercorrere la carriera di Giorgio Gaber il giorno della sua morte, si enfatizzava negativamente la sua partecipazione al Meeting e la sua simpatia verso i giovani di quel movimento. Naturalmente conservatore, di destra, integralista. Come George W. Bush. «Non ci piace la sua America, la sua politica interna e internazionale, i disastri che ha fatto e continua a fare in Iraq, i rischi di un autoritarismo, la demonizzazione dell’islam», elenca Rebotti.
Che assicura «di non avercela con gli Usa, un paese complesso che non è solo New York e la California. La rielezione di Bush lo ha dimostrato in modo limpido. Chi è il popolo che lo ha voluto di nuovo alla Casa Bianca? Al di là dei soliti servizi di costume, delle frasi fatte, siamo impegnati a capire la pancia di quel paese. Non è possibile occuparsi di quel popolo solo perché è stato decisivo in un passaggio elettorale. Mi riconosco poco o nulla in ciò che afferma. E negli scritti di Ferrara, Pera e Fallaci che applaudono a questa America sicura di sé. Però fare informazione significa guardare in faccia la realtà per interpretarla criticamente. È quello che proviamo a fare tutti i giorni».

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