Il Deserto dei Tartari

Come riportare la gente a Messa?

Monsignor Spina celebra Messa senza popolo ad Ancona durante l'emergenza coronavirus

Sto seguendo con una certa apprensione i commenti più o meno autorevoli che da alcune settimane si accumulano sul fatto che dopo la ripresa delle Messe con popolo, sospese per tre mesi al culmine dell’epidemia di Covid-19, un gran numero di fedeli – in alcune parrocchie anche il 50 per cento – non si è più ripresentato alla celebrazione domenicale dell’Eucarestia. Accorato è stato il richiamo del vescovo di Reggio Emilia e Guastalla mons. Camisasca, ripreso su queste pagine da Peppino Zola. In alcuni commenti è molto evidente una critica rivolta alle gerarchie ecclesiastiche, accusate di essere la causa di questa catastrofica flessione. Il ragionamento più o meno è: avete sospeso le Messe con troppa facilità, come se fosse un servizio non essenziale, avete lasciato passare l’idea che si può essere cristiani anche senza andare in chiesa, e adesso pagate il prezzo della vostra superficialità; avete dimostrato voi per primi di non credere che l’Eucarestia sia indispensabile, e i fedeli hanno tratto le loro conclusioni. Ora – lasciano intendere molti commenti – occorre porre riparo al malfatto e ri-catechizzare il gregge intorno alla necessità dell’Eucarestia e alla fisicità del cristianesimo, fede incentrata sullo spirito e sulla carne insieme, che si esprime tanto nel fatto delle comunità fisicamente riunite in questo o quel luogo che nella materialità dei segni sacramentali, a partire dal pane e il vino che si transustanziano nel sacrificio eucaristico.

Ho semplificato una questione e delle argomentazioni a volte complesse perché non mi interessa alimentare una disputa teologica, ma arrivare a un giudizio sensato su quello che sta accadendo. A me sembra che questo genere di approcci e di critiche non colgano il cuore della vicenda. Io non vedo un rapporto di causa ed effetto fra l’asserita negligenza della gerarchia e la defezione di grandi masse di fedeli dopo la fine del confinamento. Non è mai stato facile praticare la pur legittima correzione fraterna dentro alla Chiesa, ma oggi è diventato addirittura temerario, perché a seconda del tipo di critica che si fa si viene immediatamente assegnati a contrapposti schieramenti ideologici ecclesiali, si viene etichettati come modernisti o come tradizionalisti, si viene diffamati come nemici del Papa o come pasdaran di Bergoglio. Io credo che si possano criticare alcuni aspetti di ciò che la gerarchia ha detto, fatto, omesso di fare o dire durante il confinamento. Credo che si sia data l’impressione – e sottolineo “impressione”-  che a prendere le decisioni non era la Chiesa (come in Italia stabiliscono gli accordi fra Stato e Chiesa e come a livello universale ha ribadito il Concilio Vaticano II nella costituzione Sacrosanctum Concilium al n. 22), ma lo Stato, al quale i vescovi si adeguavano come fossero funzionari statali; credo che quando le forze dell’ordine hanno interrotto Messe celebrate da sacerdoti che non tenevano conto dei decreti che le avevano sospese, i vescovi avrebbero dovuto riprendere con uguale severità i sacerdoti disobbedienti e gli agenti di pubblica sicurezza che avevano profanato la più sacra e la più santa delle azioni liturgiche, e invece così non è stato. Credo che non sia stato abbastanza sottolineato che per amore del prossimo e per rispetto verso il divino dono della vita la Chiesa operava una dolorosa rinuncia, privava i battezzati di qualcosa di estremamente prezioso: non si è trasmessa con sufficiente forza l’idea che la rinuncia all’Eucarestia che i credenti accettavano è una fatica ben più grossa che rinunciare alla corsa podistica solitaria, alla serata con gli amici, alla partita allo stadio.

Ma premesso questo – che è ciò in cui consistono le mie critiche assolutamente filiali, formulate in piena coscienza che io non sono migliore delle persone le cui azioni e inazioni critico – non trovo giusto colpevolizzare i vescovi per la recente diserzione di massa dalle celebrazioni domenicali. A me pare piuttosto che il Covid-19 abbia funzionato come il vento in autunno: ha fatto cadere al suolo in un colpo solo innumerevoli foglie che erano già morte. Le assemblee eucaristiche domenicali sono formate in gran parte da persone che per il resto della settimana vivono esattamente come quelli che a Messa non ci vengono più o non ci sono mai venuti – e sono i due terzi o i tre quarti della popolazione, a seconda delle stime. Per stile di vita, per priorità esistenziali, per valori e disvalori, per modo di rapportarsi al prossimo, per il modo di vivere la famiglia, l’educazione dei figli, la dimensione lavorativa, la sessualità, l’impegno politico, la scelta dei divertimenti e dei consumi, ecc., il gregge cristiano preso nel suo insieme generico e indistinto si differenzia sempre meno dal resto della popolazione. La frequenza della Messa domenicale è uno dei rari elementi di distinzione fra i due gruppi. Ma quando un avvenimento imprevisto come il confinamento domestico per motivi di salute pubblica impedisce al cristiano della domenica di andare a Messa, quel genere di cristiano realizza che effettivamente può fare a meno di andarci: cosa gli cambia? Da tempo, nel suo caso, il rito era diventato ritualismo. Allora bisognerebbe leggere diversamente il senso dell’accaduto: non è vero che la Chiesa ha perso fedeli perché ha chiuso le porte delle chiese durante l’epidemia; è vero invece che grazie al Covid la Chiesa si è accorta che aveva perso una gran numero di fedeli che credeva di avere.

Si può fare qualcosa per recuperarli? Molti hanno sottolineato la necessità di una catechesi più attenta sul tema dei sacramenti e della comunità cristiana da riconoscere come assemblea santa, per usare l’espressione che in una bella Lettera ai presidenti delle Conferenze episcopali sulla celebrazione della liturgia durante e dopo la pandemia del Covid-19 ha recentemente utilizzato la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Ma a me pare evidente che la possibilità di un’azione positiva sta più a monte della catechesi e della stessa frequentazione dei sacramenti. Abbiamo tutti ben chiaro che i sacramenti, compresa l’Eucarestia, non funzionano secondo le modalità della magia: le infedeltà e gli stili di vita anti-evangelici di noi cristiani che pure siamo stati battezzati e ci accostiamo all’Eucarestia dimostrano che i sacramenti non agiscono come la bevanda magica di Asterix, dotandoci di forze soprannaturali per il solo fatto che entrano a far parte del nostro organismo; e nemmeno ci garantiscono automaticamente la vita eterna, che dipende tanto dalla misericordia di Dio quanto dalla nostra adesione fattiva alla Sua volontà. I sacramenti “funzionano” solo se incontrano la libertà dell’uomo che decide per il bene. E allora la questione è: che cosa libera la libertà umana, che cosa mobilità la volontà a volere il bene? Occorre un incontro personale con lo Spirito inviato da Cristo e dal Padre, come è accaduto nella Pentecoste, e come accade oggi ogni volta che le persone incontrano un carisma donato da Dio alla Chiesa.

Lo spiegò bene alcuni anni fa don Giussani in un’intervista che gli fece l’allora non ancora vescovo Angelo Scola: «L’istituzione ha come sua struttura fondamentale il sacramento, la Parola di Dio e il Magistero, che è di tutti i vescovi in quanto uniti al Papa. Ma come può accadere che un uomo, accostandosi al sacramento, si senta penetrato da una volontà nuova? E ascoltando la Parola di Dio si senta animato da un’immagine nuova del suo vivere? E, ancora, che sentendo l’indirizzo del Magistero infallibile intuisca la strada su cui deve correre, sacrificando tutto di sé? Che ciò avvenga è opera non automatica del sacramento, della Parola e del Magistero, ma frutto dello Spirito. Come ha detto il Papa nel discorso ai sacerdoti di Cl, il 12 settembre 1985: “Il sorgere del corpo ecclesiale come Istituzione, la sua forza persuasiva e la sua energia aggregativa, hanno la loro radice nel dinamismo della Grazia sacramentale. Essa però trova la sua forma espressiva, la sua modalità operativa, la sua concreta incidenza storica mediante i diversi carismi”. Per questo gente che non è mai andata in chiesa, vivendo l’esperienza di un movimento, inizia a comunicarsi anche tutti i giorni con una naturalezza che non ha bisogno di richiami doveristici» (citazione da “Il «potere» del laico, cioè del cristiano”, intervista di Angelo Scola a Luigi Giussani, in 30 Giorni, n. 8, 1987). Credo  che si debba ripartire da qui.

Foto Ansa

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