Ti giuro che la cosa cui non sono ancora riuscito ad abituarmi è il cane scemo che ogni volta che entro in casa col pacco in mano rischia di farmi cadere dalle scale. Ogni volta, perdio. Anche l’altro giorno quasi mi faceva capitolare giù dai gradini. «Fufi, fai passare!» gridava la vecchia dal piano superiore. Ecco bravo, Fufi, fai passare che sennò ti infilo un barattolo nel naso.
Tutte le volte la stessa scena. Io arrivo col pacco. Suono. Arriva Fufi che quasi mi fa cadere dalle scale. Lei lo rimprovera e appena sull’uscio mi ripete ormai da tre anni la stessa frase: «È così una cara bestiola. È così simpatico». Sì, simpatico come una calza di spugna intrappolata nella trachea. Poi mi offre il caffè, mentre il gatto epilettico (sì, è epilettico, non ci vede da un occhio ed è sciancato da una gamba) girovaga intorno alle tazzine premurandosi di lasciarvi dentro qualche pelo. «Ci vuoi del latte nel caffè?», mi chiede la signora. Oltre ai peli?, mi verrebbe da dire. E, invece, dico «grazie» non per educazione, ma perché questa storia del caffè è il suo modo per sdebitarsi, in qualche modo. Intorno a noi – cioè ai due metri quadrati intorno a noi – ci sono un migliaio di carabattole e cianfrusaglie malconce. Scatole, scarpe, videocassette, libri, un computer rotto, un armadietto rotto, un frigorifero “quasi” rotto, quattro sedie, un tavolo traballante, un fornelletto da campo e il forno. «Ce l’avete mica un forno?». Perché, cos’è successo? «S’è rotto». Strano. «Sai, ci hanno tagliato il gas perché non pagavamo le bollette e ora siamo al freddo. Così abbiamo acceso il forno per scaldarci. Ma poi s’è rotto pure quello». E ora? E ora niente. Arriva l’inverno e questa famiglia di squinternati lo passerà al freddo. Loro, il gatto epilettico e il cane scemo.
Caro direttore, sono uno dei tanti volontari che si occupano periodicamente di consegnare il “pacco alimentare” agli oltre due milioni di poveri assistiti tramite il Banco Alimentare. Sabato c’è la diciottesima Giornata della Colletta alimentare i cui beni raccolti vengono messi a disposizione di circa novemila strutture caritative (mense per i poveri, comunità per minori, banchi di solidarietà, centri d’accoglienza) che poi si occupano di farli avere ai bisognosi. Ecco, io sono quello che ogni due settimane va al magazzino dove la mia associazione ha stipato il cibo, lo inscatola e lo porta a casa degli indigenti. Come me, compiono questo gesto altre migliaia di volontari. L’unica differenza fra me e tutti gli altri, è che io devo bere il “caffè macchiato di gatto”.
Non tutte le famiglie sono uguali: alcune sono cadute in disgrazia e il pacco sarà per loro solo un aiuto temporaneo, per altre, è chiaro, ci vorrà più tempo prima che si mettano in sesto. In ogni caso, quando si ha a che fare coi “poveri” e non coi discorsi sulla “povertà”, è molto diverso. S’impara la pazienza. La prima pazienza che s’impara è nei loro confronti, perché si capisce che c’è sempre un punto da cui si può ricominciare. Ad esempio: la signora mi chiede sempre di trovare un lavoro ai figli. Ok, fatto. Uno è andato un giorno e poi ha smesso. L’altro non è andato. Perfetto. Allora mi ha chiesto di trovare loro un altro impiego, «perché quello lì non andava bene per colpa di Renzi» (ora è Renzi, prima era Berlusconi). Quindi tu glielo ritrovi, e magari lo tengono qualche settimana, e tu speri che poi questa cosa, man mano, li tiri fuori dal letargo esistenziale in cui sono immersi. Insomma, ci provi. Ma poi ci vuole un altro tipo di pazienza, ed è quella verso se stessi. Perché a un certo punto, soprattutto dopo il “caffè al gatto”, te lo chiedi: ma chi me lo fa fare? Una volta uno mi ha detto: «È gente che non se lo merita il vostro aiuto».
È vero, non se lo meritano. Ma io, invece, perché dovrei meritarmelo? Dopo tre anni che recapito il pacco ho capito che se tutto dipendesse dal “merito” loro o dalla “generosità” mia, avrei già smesso due anni e 364 giorni fa. Invece si porta il pacco per condividere un bisogno (la fame!) e compromettersi fino al midollo con una vita altrui. Che poi sono le chiacchiere in cucina, il caffè, il forno rotto. Così si scopre che, non diversamente da loro, anche noi siamo impacciati come un cane scemo e claudicanti come un gatto epilettico. E anche noi, come loro, abbiamo bisogno di metterci in moto per ricordarci di esser oggetto, ogni giorno, di una grazia immeritata («chi mette al mondo le gocce della rugiada?», chiede Dio a Giobbe). Non è un passeggero sentimento imperiale, è un’azione. Dalle mie parti la chiamano “caritativa”.
Lettera firmata