Tremende bazzecole
Da Cogne a Santhià, la geografia nera italiana. Il «quarto grado» di Chesterton sugli abissi dell’anima umana
Un racconto poliziesco descrive sei uomini vivi che discutono su come un loro simile sia morto.
Una storia moderna descrive sei uomini morti che discutono su come sia mai possibile che qualcuno riesca a vivere.
G. K. Chesterton
C
Si fa il «Quarto grado», si traccia una «Linea gialla»: l’attenzione mediatica su questi eventi è lievitata, non c’è da stupirsi. Ci si può aspettare che un uomo vivo s’interessi di un suo simile ucciso. Il signor Chesterton – che fu un grande scrittore di racconti polizieschi – affermò, parlando di Sherlock Holmes: «Preferisco un uomo che impiega un racconto per affermare di saper risolvere il problema di un omicidio a quello che ci mette un libro intero per affermare di non saper risolvere il problema delle cose in sé». Però pare proprio che il brulicame dei discorsi e programmi televisivi che vivisezionano questi eventi ci abbia reso solo e solamente più esperti sul luminol, sui plastici delle case, sui cavilli legali e sul gossip psichiatrico. E tutto questo lascia quel retrogusto amaro, come quando il titolo di un film introduce un certo tipo di aspettativa, e poi la visione della pellicola fa crollare tutto. Ma, a dire il vero, la sensazione è ancor più simile a quando, ascoltando un’intervista, sentiamo una domanda chiara e precisa e poi, chi deve rispondere, si dilegua parlando di tutt’altro. O non ha capito, o vuole glissare.
La morte non la si può capire (l’attraverseremo tutti, e solo allora questo paradosso avrà un senso), ma non glissiamola, neanche quando è sfacciatamente crudele e misteriosa. Il luminol non è il tipo di luce capace di illuminare questi fatti terribili. Gli indizi, le prove, gli psichiatri, le condanne possono rintracciare un colpevole, ma non potranno svelare un briciolo del mistero che si cela nel cuore di un uomo, del male che si annida nelle viscere. Certo, la giustizia deve fare il suo corso, le forze dell’ordine non devono trascurare nessuna ipotesi, le vittime meritano una sacra memoria. Ma, in fondo, cos’è che cattura tanto la nostra attenzione in questi casi? E, soprattutto, perché quell’attenzione deve essere «imbambolata» parlando solo di questioni psico-tecnico-scientifico-legali?
Un morto e un assassino, sono questi i soggetti del discorso. E forse, l’assassino più del morto. Alla vittima, infatti, va tutta la nostra pietà: è in piena luce e ci mostra tutto il vulnerabile volto della nostra creaturalità. L’assassino, invece, ci parla del buio e ci parla di un’altra parte incensurabile di noi, perché – inconsciamente, o anche consapevolmente – le ombre che attraversano sangue e mente sono il problema di ogni sano essere umano. Anche quelli che si sgolano e si stracciano le vesti sulle crudeltà degli assassini hanno il cuore attraversato da ombre, anche i pubblici ministeri e i membri della polizia scientifica ce le hanno. Quanto a me, io senz’altro di ombre ne ho.
Ultimamente, una delle canzoni più passate dalle radio è quella degli Imagine Dragons che s’intitola Demonse dice: «Non importa quale sia la nostra razza, siamo comunque fatti d’invidia. … Guarda nei miei occhi, è lì che i miei demoni si nascondono; non avvicinarti troppo. Dentro di me c’è il buio». Ognuno ha i suoi demoni, e questo è il motivo per cui il signor Chesterton sosteneva che il poliziesco fosse una delle più eccellenti forme d’arte, su cui sarebbe stato bello che i bravi scrittori si cimentassero arditamente. Chesterton, per quanto sia conosciuto per la sua ironia e buonumore, conobbe in gioventù una crisi profonda che – come lui stesso dice – lo portò a scendere così in basso da giungere al cospetto del Diavolo e misteriosamente riconoscerlo. Si dice anche che le sue ultime parole sul letto di morte siano suonate più o meno così «è tra luce e tenebre che ognuno deve scegliere la sua parte».
Dante stesso scese così tanto dentro l’abisso da guardare in faccia il Diavolo, per poi lasciarselo risolutamente alle spalle. Chesterton, dopo quel momento di crisi acuta e bruciante, ebbe modo di ripetere più volte che era vero il modo di dire per cui «il Diavolo non è così nero come lo si dipinge». Ma se diamo credito a lui e a Dante, dobbiamo ammettere che non ci sono vie facili o scorciatoie: l’ombra, la tenebra, il buio vanno discesi e attraversati. Il racconto poliziesco mette a tema questo mistero d’ombra che c’è in ogni creatura umana, quello che la cronaca nera ci conferma inconfutabilmente.
Ecco, il prevalente gusto del morboso che le trasmissioni televisive troppo spesso alimentano, si sazierebbe a rovistare sui dettagli cruenti. Come funzionavano esattamente i giochetti malvagi del Viti? Quanto ha agonizzato la povera prostituta? Ricostruiamo le fasi del mattatoio avvenute in casa Manavella? Ci sono gli estremi perché l’assassino la faccia franca ricorrendo all’infermità mentale?
L’investigatore più famoso inventato dal signor Chesterton, Padre Brown, ci proporrebbe un altro approccio, più spudorato, più coraggioso, più sano. Ci farebbe sì un quarto, quinto e sesto grado… dell’anima. E credo che partirebbe proprio da quel grido «ho fatto una cazzata», «sono stato io». Volgere lo sguardo alla vittima ci ricorda che l’uomo ha sete di giustizia. Più spudoratamente, Padre Brown ascolta la voce dell’assassino, perché noi abbiamo anche sete di guardare le nostre colpe, di mostrarci nudi con le nostre macchie. La confessione, il mea culpa, non è un atto di sconfitta, ma il segno di un uomo che impugna la spada contro il male. E non deve essere lasciato solo in questa lotta. Quella stessa canzone Demons, prosegue dicendo: «I tuoi occhi brillano così luminosi, voglio salvare la loro luce. Non posso fuggire da tutto questo ora, a meno che tu non mi mostri come fare».
C’è un racconto che giudico esemplare, tra i molti di cui è protagonista Padre Brown, e s’intitola Il passo strano: il prete investigatore è chiuso nel guardaroba di un lussuoso hotel per redigere le ultime volontà di un cameriere che è morto. Stando lì, ode nel corridoio degli strani rumori di passi, prima svelti poi indolenti; si accorge che è la stessa persona che cammina – perché c’è uno scricchiolio inconfondibile nel suo incedere – eppure quella persona cambia di tanto in tanto passo. Cosa sta combinando? Ebbene, uscendo da quello sgabuzzino buio, Padre Brown ferma il passeggiatore, smascherandolo come ladro. Di lì a poco, infatti, il proprietario dell’albergo accorrerà trafelato a comunicare che è stato rubato un prezioso servizio d’argenteria. Ebbene, tutti quelli che nelle sale dell’albergo avevano visto in faccia il ladro non erano stati capaci di riconoscerlo, ma un uomo attento e nascosto al buio gli ha letto l’anima solo ascoltando i suoi passi. Anche noi siamo di corsa, o ci trasciniamo pigri, o facciamo le nostre salutari corse al parco, ma ci portiamo dietro i nostri inconfondibili scricchiolii. Vogliamo forse dire che non sarebbe consolante e liberante che qualcuno riconoscesse il nostro passo, sapesse avere compassione dei calci che siamo capaci di dare o dell’equilibrio che perdiamo? Qualcuno che – poi – ci accompagnasse e ci mostrasse come fare a guardare il buio, e chiedere perdono.
Tutto per noi si gioca tra la luce e le tenebre; il vero «giallo» non è un racconto di misera abiezione, ma di tremendo realismo: «qualsiasi forma letteraria rappresenti la nostra vita come qualcosa di pericoloso e sorprendente è più vera di quelle che la descrivono pervasa dal languore e dal dubbio. Perché la vita è una lotta, non una conversazione» (G. K. Chesterton, da Nutrirsi di storie in Svelare il mistero).
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