Cimea: c’è tutta una vita in quel pezzo di carta
È nato nel 1984 con l’idea di connettere tra loro le università, e in questi quarant’anni è cresciuto tantissimo, arrivando a “far parlare” tra loro atenei e studenti di tutto il mondo e diventando un esempio da seguire e imitare anche all’estero. È il Centro Nazionale di Informazione sulla Mobilità e le Equivalenze Accademiche (Cimea), e per dirla con le parole giuste svolge attività di informazione e consulenza sulle procedure di riconoscimento dei titoli di studio vigenti nel nostro paese, sul sistema italiano d’istruzione superiore e sui temi collegati all’istruzione e formazione superiore italiana e internazionale. Un ruolo affidatogli nel 1984 dall’allora ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, a seguito della ratifica della Convezione di Lisbona.
«Sono quarant’anni di attività con una mission che è riportata nel logo: “The art of connecting academia”», dice a Tempi Antonella Martini, professore ordinario presso la Scuola di Ingegneria dell’Università di Pisa e presidente del Cimea dal 2015. «In questa frase è racchiuso il senso di ciò che facciamo: inclusione, integrazione, apertura di spazi di opportunità, facilitazione di processi. In una parola: servizio». Oggi Cimea offre supporto a tutti gli attori del sistema della formazione superiore, prosegue Martini, «è un facilitatore di processi e di connessioni. Si rivolgono a noi in primis i singoli cittadini, ma anche università e ministeri».
Efficacia e ragionevolezza
In questi quattro decenni il mondo è profondamente cambiato, così come lo scenario universitario: nel 1984 ancora non c’era il programma Erasmus, non c’era lo spazio europeo dell’istruzione e non c’era neppure internet. «Negli anni Ottanta, con l’Erasmus ci fu l’inizio della mobilità studentesca; con la caduta del muro di Berlino arrivarono persone dall’Est europeo, poi iniziarono flussi di immigrazione dall’America latina, dai paesi arabi e poi asiatici», ricorda Martini. Per un ente come Cimea, spiega la presidente, questo ha significato anzitutto estendere le competenze linguistiche: da inglese, francese e italiano alle attuali 36 lingue – «l’ultima è il bengali, l’idioma del Bangladesh».
Poi un aumento notevole della complessità: «Oggi abbiamo il Quadro dei titoli dello Spazio europeo, ma all’inizio gli “schemi” non esistevano: si lavorava in una “giungla burocratica”, costruendo passo dopo passo la fiducia con gli interlocutori, scambiando documenti via fax e formando così le basi di conoscenza dei sistemi e dei paesi».
«Per servire, servire»
Un lavoro culturale e umano, spiega la professoressa: «Culturale perché per conoscere un sistema-paese occorre costruire relazioni personali – soprattutto in ambito istituzionale. Umano perché dietro ogni titolo c’è una vita, con una storia, a volte difficile – pensiamo ai rifugiati, per i quali Cimea produce gratuitamente attestati di comparabilità –, e con un progetto da realizzare».
Chi lavora in Cimea deve non solo essere continuamente aggiornato su norme e competenze tecniche in continua evoluzione, ma deve avere «il giusto tocco umano», avendo a che fare con persone per le quali la valutazione del proprio titolo di studio può decidere in maniera decisiva il futuro lavorativo.
Martini usa un’espressione efficace, “per servire, servire”: «Rispettare il diritto della persona di vedersi valutato il proprio titolo in maniera equa implica non semplicemente lavorare con efficienza ed efficacia, bensì tenere in conto anche il principio di ragionevolezza: fare ciò che è bene fare; ciò che è giusto fare; ciò che vale la pena di fare. Questo dà senso al lavoro che facciamo. Il personale Cimea è consapevole che il modo in cui lavora si riflette sulle direzioni di vita delle persone».
Drammi e storie ingarbugliate
Le chiediamo qualche esempio concreto, e lei ci parla di uno studente iraniano che non poteva ottenere l’attestato finale di diploma dal ministero e aveva solo il documento provvisorio, poiché, secondo la legge iraniana, l’attestato finale non viene rilasciato a meno che non si completi il servizio militare o ci si iscriva all’università all’interno del paese. Cimea è riuscito a contattare la scuola in loco e ha rilasciato l’Attestato di comparabilità, in modo che lo studente potesse proseguire gli studi in Italia.
Poi racconta la storia di un medico iracheno che esercitava nel suo paese ma non aveva documenti a sufficienza per poterlo dimostrare, ma «tramite la ricostruzione del suo percorso fatta da Cimea, ha potuto inserirsi in un ospedale per fare un tirocinio e infine iscriversi all’albo dei medici in Italia».
Ci sono casi ingarbugliatissimi, come quello di uno studente di nazionalità russa cresciuto alle Bahamas seguendo un percorso di homeschooling e trasferitosi in Italia per ragioni personali: «L’università presso cui aveva fatto domanda», racconta Martini, «non aveva idea di come valutare il suo titolo e stava rigettando la sua domanda», grazie al lavoro di ricerca di Cimea è invece riuscito a ottenere l’Attestato di comparabilità per l’accesso all’università in Italia».
Il supporto dell’Ai
Un lavoro in continua evoluzione che non può restare indifferente alla rivoluzione portata dall’intelligenza artificiale. «Lo scorso anno Cimea ha pubblicato un documento per approfondire i rischi e le opportunità dell’Ai nel riconoscimento delle qualifiche. Non si offrono soluzioni – che nessuno ancora ha – ma si aprono spazi di discussione, tramite una serie di domande che toccano 5 dimensioni.
Ne evidenzio solo alcune, rimandando al documento scaricabile. La dimensione dell’equità, ad esempio: se consideriamo la distribuzione geografica delle risorse che alimentano i sistemi di Ai, il divario digitale, le differenze di quantità e qualità dei dati digitali sul sistema di istruzione superiore di un determinato paese, possiamo aspettarci una maggiore disuguaglianza tra le diverse regioni del mondo per quanto riguarda la qualità della procedura di riconoscimento? E ancora: se da un determinato paese vi è di solito un numero maggiore di qualifiche fraudolente, il sistema Ai sarà più incline a indicare frodi?».
«L’Ai è utile, ma non può sostituirci»
Un’altra domanda che si fanno al Cimea è se l’Ai possa contribuire ad automatizzare, almeno in parte, la procedura di valutazione, e fino a che punto questa vada lasciata nelle sue “mani”. Come sottolinea la presidente, «l’Ai non impatta solo sulla performance, cioè sull’efficienza e l’efficacia di ciò che facciamo: rischia di sostituire la capacità umana di decidere. Il problema è che il decidere ha a che fare con i fini, cioè con il senso – il significato – di ciò che facciamo: delegare le decisioni agli algoritmi comporta il rischio di perdita di senso del lavoro – e ciascuno di noi ha bisogno di trovare un senso in ciò che fa».
Allora, conclude la professoressa Martini, «la sfida dell’Ai è anche la sfida a ripensare il nostro lavoro: come lo facciamo e perché, cioè quale contributo vogliamo offrire, attraverso il lavoro, per migliorare il mondo nel quale siamo. Nella misura in cui riscopriremo il lavoro come fonte di vita, l’Ai ci potrà aiutare a lavorare meglio come persone». (Piero Vietti)
Una versione di questo articolo è pubblicata nel numero di novembre 2024 di Tempi. Il contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
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