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Chiuso per turismo: effetto Airbnb

Canoni alle stelle, residenti costretti a sloggiare, botteghe serrate. Così la bolla degli affitti a breve termine trasforma le nostre città da musei a deserti a cielo aperto. Per la gioia dei grandi speculatori

Rodolfo Casadei
07/12/2019 - 2:00
Società
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airbnb

Articolo tratto dal numero di ottobre di Tempi.

Doveva essere il gioiello della corona della sharing economy, l’economia della condivisione che ci salverà dalla degradazione ambientale e sociale; doveva essere l’ingegnosa soluzione che permetteva a residenti di modeste condizioni di rimpolpare le magre entrate e ad aspiranti viaggiatori dalle tasche quasi vuote di girare il mondo; doveva essere la soluzione che rivitalizzava quartieri depressi e rianimava il mercato del lavoro stagnante; la rivincita dei piccoli a spese dei grandi. L’affitto a breve termine di case private tramite portali online prometteva rivoluzioni virtuose in campo urbanistico, sociale e dell’industria turistica.

Una dozzina di anni dopo il debutto della più fortunata delle piattaforme che mediano fra proprietari e aspiranti locatari, la Airbnb fondata nel 2007 da due amici 26enni a San Francisco, le conseguenze negative di questo modello di impresa superano gli aspetti positivi: i quartieri storici di città grandi e piccole si svuotano dei loro abitanti originari e si popolano di anonime greggi di turisti in perenne transumanza a causa dell’impennata dei prezzi degli affitti a lungo termine e di quelli del mercato immobiliare; spariscono botteghe, esercizi commerciali e servizi pubblici della vita di ogni giorno sostituiti da una Disneyland di mediocri punti di ristorazione e negozi di articoli per i turisti; grandi immobiliari e fondi di investimento entrano nel gioco e si pappano la fetta più grossa della torta, spesso portando i profitti lontano da dove sono stati realizzati.

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La reazione è inevitabile, e a guidarla sono alcune delle municipalità d’Europa e d’America delle città più colpite dal fenomeno. Non tutte, perché alcune fanno poco o nulla per evitare che le loro città si trasformino in grandi parchi tematici dove i residenti sono una specie in via di estinzione. Non per colpa loro, ma perché non sono loro riconosciuti i poteri per farlo: è il caso di Firenze, di Milano e delle altre città italiane.

Nel giro di dodici anni Airbnb, cominciata con un materassino gonfiabile nel soggiorno di Brian Chesky e Joe Gebbia per ospiti paganti che li avrebbero aiutati a pagare a loro volta il salato affitto di casa a San Francisco, è diventata un gigante che vale 35 miliardi di dollari; più di 3 milioni di appartamenti o stanze in 81 mila città di 191 paesi del mondo vengono affittati tramite inserzioni sul suo sito internet. Il giro di affari complessivo ha già superato i 100 miliardi di dollari, e anche se non è possibile stabilire quanta parte di questa cifra sia semplicemente stata sottratta al giro dell’industria turistica tradizionale e quanta invece rappresenti un valore aggiunto, è facile immaginare che una certa quota dell’aumento di visitatori registrato negli ultimi anni dipenda dal fenomeno degli affitti a breve termine: calcolando solo gli arrivi internazionali, sappiamo che nel 2006, l’anno prima della creazione di Airbnb, i turisti erano 846 milioni nel mondo, ma nel 2018 se ne sono registrati 1,4 miliardi.

Airbnb è il più utilizzato dei portali per gli affitti turistici a breve termine, ma non è l’unico: ci sono HomeAway, Mediavacanze, CaseVacanza, Wimdu, Oasis, eccetera. È altrettanto intuitivo che l’avvento di Airbnb e dei suoi fratelli ha provocato una flessione dei costi di alloggio per i viaggiatori, anche se questa maggiore economia non è ancora quantificata in studi specifici. Un altro vantaggio è il recupero di edifici e appartamenti degradati e in condizioni di abbandono, che non sarebbero stati restaurati senza la prospettiva dei profitti degli affitti a breve termine: l’Alfama di Lisbona è l’esempio che viene più spesso portato. Più controverso il beneficio sull’occupazione: i posti di lavoro creati dagli affitti di privati a breve termine sono per lo più “rubati” alle pensioni di bassa gamma, e quelli creati nell’industria della ristorazione prendono il posto di quelli di altre tipologie commerciali che vengono espulse dai “quartieri Airbnb”.

I prezzi impazziti a Lisbona

Il problema è che questi benefici economici comportano una mutazione genetica delle città d’arte e di turismo d’Europa e d’America, che sempre più assumono il volto di “città senza cittadini”, e dove l’espressione “museo a cielo aperto” usata per magnificare le più belle località d’Europa assume il sinistro significato di città senza più vita. Il meccanismo che si innesca non è difficile da spiegare: il boom degli affitti a breve termine toglie dal mercato degli affitti a lungo termine una quota importante di alloggi, di conseguenza l’importo degli affitti aumenta in maniera generalizzata e i locatari sono costretti a emigrare nell’hinterland; spesso sono i proprietari a espellere gli inquilini a fine contratto per riconvertire la proprietà in un più redditizio appartamento per turisti; infine intervengono grandi fondi immobiliari o di investimento che acquistano e ristrutturano decine di appartamenti nei centri storici per poi mettere le inserzioni online. Insomma, gli affitti turistici a breve termine portano al parossismo il fenomeno della gentrificazione, cioè la concentrazione dei benestanti nei centri storici e l’espulsione dei ceti popolari verso le estreme periferie. Benestanti che si ritrovano poi praticamente senza vicini, perché questi cambiano di settimana in settimana.

Il caso più plateale resta Lisbona, dove fra il 2012 e oggi il prezzo medio degli alloggi a metro quadrato è raddoppiato e quello degli affitti è aumentato del 40 per cento, nel mentre che il centro città si spopolava (il quartiere dell’Alfama è passato da 20 mila a 1.000 abitanti residenti nel giro di trent’anni). Ma anche Firenze non scherza: la città di Dante è la seconda in Europa dopo Parigi per numero di locazioni brevi in rapporto al numero degli abitanti, ed è la prima in Italia per la percentuale di appartamenti in affitto a breve termine in rapporto al totale degli alloggi nel centro storico, che sarebbero ormai uno su cinque (contro i poco più di uno su dieci a Roma e a Venezia).

Il Sunia, il principale sindacato degli inquilini, denuncia che il centro storico della città perde mille residenti fiorentini all’anno. «Nel centro di Firenze affitti a lungo termine non se ne trovano più, mentre nel resto della città i canoni di locazione hanno conosciuto un aumento del 30 per cento fra il 2016 e oggi», ci dice Laura Grandi, segretario regionale del Sunia per la Toscana per spiegare l’“effetto Airbnb” su Firenze. «È una città bellissima con monumenti stupendi, ma i suoi cittadini sono costretti ad abbandonarla e ad andare a vivere fuori. I prezzi sono diventati così alti che l’anno scorso il 77 per cento di tutte le compravendite immobiliari è stato realizzato da non residenti che comprano casa a Firenze non per venirci ad abitare, ma per avere una rendita». Grazie agli affitti brevi ai turisti. «I negozi di prossimità (alimentari, fruttivendoli, macellai, eccetera) e le botteghe artigiane tipiche (cuoio, scarpe, eccetera) sono virtualmente scomparse, sostituite da servizi per i turisti. La gente è costretta a fare tutte le spese nei centri commerciali. Se un giorno scoppierà la bolla dell’economia turistica, ci ritroveremo con un tessuto sociale ed economico completamente devastato».

La resistenza degli enti locali

Per questa e per altre ragioni amministrazioni comunali di tutto il mondo hanno da tempo avviato una controffensiva per limitare lo strapotere di Airbnb e affini. Le misure restrittive più comuni sono la limitazione del numero di giorni in un anno per i quali si può affittare un appartamento, l’obbligo di presenza del proprietario durante l’affitto, l’istituzione di una licenza per poter affittare a breve termine, un trattamento fiscale più oneroso se si affitta una casa in cui non si abita, l’istituzione di tetti al numero di appartamenti che possono essere affittati a breve termine in determinati quartieri e infine l’esclusione pura e semplice dei fondi immobiliari e di investimento dal mercato degli affitti a breve.

Quest’ultima restrizione è particolarmente applicata negli Stati Uniti in città come New York e Las Vegas, ma di fatto anche a San Francisco, Santa Monica e Los Angeles, dove solo i residenti effettivi possono affittare a breve termine. In tutti questi centri tranne che a Los Angeles i proprietari devono essere presenti in città per tutto il tempo in cui l’alloggio è affittato; a Los Angeles solo l’abitazione primaria può essere affittata a breve termine.

In Europa la decisione più drastica l’ha presa Palma di Majorca, che ha proibito del tutto gli affitti a breve termine di appartamenti condominiali. Parigi, la città col maggior numero di alloggi in inserzioni Airbnb (almeno 60 mila), ha fissato in un massimo di 120 all’anno i giorni per i quali si può affittare a breve termine la propria abitazione principale, mentre se si intende affittare una seconda abitazione occorre registrarsi e poi compensare trasformando in locale abitabile una superficie a fini commerciali equivalente di cui si è proprietari o che un terzo mette a disposizione (!). A Lisbona sono stati istituiti tetti per il numero di appartamenti affittati in alcuni quartieri, a Barcellona è necessaria una licenza come in quasi tutte le città americane e come a Parigi per la seconda casa, e Airbnb è stata costretta a ritirare le inserzioni di migliaia di appartamenti che non erano in regola.

Roma contro le sue Regioni

E in Italia? Siamo all’anno zero, perché né i Comuni né le Regioni hanno i poteri per prendere provvedimenti come quelli che le amministrazioni di tutto il mondo stanno introducendo. In Italia i soli obblighi riguardano il pagamento di una tassa di soggiorno di 3 euro al giorno e la comunicazione ai Comuni relativa agli appartamenti per i quali si fanno inserzioni su Airbnb o altre piattaforme. Per ogni comunicazione viene assegnato un codice, che dovrà apparire su tutte le inserzioni online o cartacee al fine di facilitare i controlli da parte delle autorità.

Il governo Gentiloni a suo tempo si è battuto come un leone contro Toscana e Lombardia che avevano cercato di regolamentare il fenomeno. La Toscana aveva approvato una legge che imponeva ai proprietari di dare vita a un’impresa nel caso di affitti a fini turistici di più di due appartamenti, con oltre 80 contratti all’anno. La Lombardia aveva semplicemente istituito l’obbligo del codice identificativo per gli alloggi per cui si faceva inserzione online o in altro modo. Il governo fece ricorso in Corte costituzionale contro entrambe le leggi, denunciando che erano state usurpate le sue competenze in materia.

La Consulta ha dato ragione al governo di centrosinistra nel caso della Toscana, ma torto nel caso della Lombardia: le Regioni hanno il potere di controllare le locazioni attraverso i codici. Adesso vedremo se il centrosinistra, tornato sotto altre vesti al governo, vorrà utilizzare le sue competenze esclusive in materia di turismo per impedire che Firenze, Pisa, Lucca, Venezia, eccetera siano trasformate in parchi tematici che chiudono i cancelli in bassa stagione, oppure va bene così.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

Tags: affittiAirbnbturismo
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