Chi libera il Perù

Di Rodolfo Casadei
03 Maggio 2007
Velasco, Fujimori, Sendero volevano cambiare il mondo ma «tutto è rimasto uguale a quarant'anni fa». Il vescovo missionario di Lima racconta le sfide di un paese sempre sull'orlo della rivoluzione inutile

Quando, nel dicembre 1996, fu nominato vescovo della neonata diocesi di Carabayllo, creata ritagliando una fetta di territorio e di popolazione pari a due milioni e mezzo di abitanti nella gigantesca arcidiocesi di Lima (8 milioni di anime), monsignor Lino Panizza scoprì il più curioso dei tanti problemi della sua circoscrizione ecclesiastica: era priva di sede episcopale. «Per qualche mese l’autentica residenza del vescovo è stata la mia automobile», racconta il cappuccino italiano originario della provincia di Savona. «Con quella ho visitato la diocesi strada per strada, per rendermi conto delle realtà e dei problemi».
Missionario in Perù ininterrottamente dal 1970, monsignor Panizza non è tipo da spaventarsi per le contrarietà. Creato vescovo dopo 26 anni di attività pastorale svolta in tutte e tre le grandi regioni del paese – costa, sierra e selva – , si è immerso nella nuova realtà e in breve tempo ha individuato una priorità assoluta: colmare il drammatico deficit di educazione e formazione umana nella megalopoli che vedeva crescere a vista d’occhio. È nata così l’università cattolica Sedes Sapientiae, la seconda della città di Lima e la più popolare come estrazione sociale dei suoi studenti.
Un pastore capace di una tale intelligenza della realtà è la persona più indicata per chiarire le grandi questioni dell’America Latina, la cui Chiesa si riunisce per la quinta conferenza dei suoi vescovi nella seconda metà di maggio e all’indomani della visita di Benedetto XVI in Brasile. Titolo dei lavori: “Discepoli e missionari di Gesù Cristo, perché i nostri popoli abbiano vita in Lui – Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14,6)”. Da notare che la citazione dal Vangelo secondo Giovanni e l’espressione “in Lui” sono state aggiunte di proprio pugno dal Papa al titolo che i vescovi latinoamericani gli avevano sottoposto.
Monsignor Panizza, lei è stato per 37 anni in missione in Perù. C’è un’idea o un pensiero che riassumono la sua esperienza?
Effettivamente ho vissuto evoluzioni molto importanti. Ho conosciuto i fermenti del post-Concilio e del post-conferenza di Medellin, la prima del Celam, le grandi attese nei confronti della teologia della liberazione e delle comunità di base. Ho sperimentato la dittatura di sinistra del generale Velasco e quella di destra di Alberto Fujimori, passando per le fasi democratiche e il terrorismo di Sendero Luminoso. Tutti sono partiti dal presupposto che per cambiare il mondo, per affermare la giustizia bisogna cambiare le strutture. Il risultato di questa impostazione è che oggi il Perù è povero e pieno di diseguaglianze esattamente come quando sono arrivato io. Perché a dover cambiare è il cuore dell’uomo.
Sembra una critica alla teologia della liberazione. In Europa non se ne parla quasi più.
Da noi se ne parla ancora. Io credo che l’ispirazione originale della teologia della liberazione sia stata travisata nel momento in cui i suoi promotori hanno abbandonato il fondamento scritturale per aderire al materialismo storico. Si è partiti giustamente dall’idea che la parola di Dio implica che l’uomo ha bisogno di essere liberato da forme di peccato che lo rendono schiavo, e si è approdati alla convinzione che il progresso nel mondo viene dalla lotta di classe. Per fortuna Giovanni Paolo II e il cardinale Ratzinger intervennero a chiarire che la liberazione cristiana non è quella dalla povertà, che è un effetto, ma quella dal peccato di egoismo, che è la causa.
Oggi la dottrina politica che fa problema, nell’America andina, è l’indigenismo. Che pericoli comporta?
Farei una distinzione fra paesi come Venezuela e Perù, dove il riferimento al riscatto della popolazione india da parte di leader politici come Chávez e Humala è puramente strumentale alle esigenze della loro scalata del potere, e paesi come Ecuador e Bolivia, dove ci sono veramente movimenti indigeni politicizzati. Succede però che anche i movimenti più propriamente indigenisti dipendono dai soldi messi a disposizione da Chávez, che ha come unico obiettivo quello di ereditare il prestigio di Fidel Castro e di diventare quindi un leader di statura internazionale. Che gli indigeni siano emarginati è vero, ma inalberare la loro bandiera e appellarsi al loro risentimento per scalare il potere è profondamente disonesto.
L’indigenismo ha un suo corrispettivo ecclesiale nelle rivendicazioni di una teologia e di una pastorale specificamente indigene.
Sono stato presidente della Commissione episcopale per la pastorale indigena. In Perù una pastorale indigena non è strettamente necessaria, se non nel caso di alcune tribù della selva che rischiano l’estinzione culturale se non le aiutiamo a difendere la loro identità. Gli indigeni della sierra sono normalmente integrati nella pastorale comune. Spesso la pastorale indigena consiste nel fare dell’archeologia, nello scavare alla ricerca di cose che sono ormai sepolte. Voler far riemergere a tutti i costi riti e simboli del passato significa fare del teatro che va bene per i turisti, non per gli indigeni stessi. Capisco che il 25 giugno si celebri la festa del sole: fa parte delle attrazioni per i turisti. Ma pensare che gli indigeni celebrino veramente la festa nei suoi significati religiosi, è fuori dalla realtà.
Nonostante cinque secoli di cristianesimo in America latina l’istituzione familiare è molto fragile. Perché?
Nella cultura tradizionale la famiglia non era affatto fragile, anche se esistevano istituti come il “matrimonio di prova”. L’adulterio era punito con l’espulsione dalla comunità, che esercitava un controllo sociale molto forte. La disgregazione delle famiglie dipende dai grandi fenomeni migratori della storia latinoamericana. Uomini e donne si spostano in cerca di lavoro, spesso separandosi dai rispettivi sposi, e dopo qualche anno si trovano un altro compagno o un’altra compagna con cui hanno dei figli. Poi c’è il problema della mancanza di un sistema di previdenza sociale. Tante volte delle donne si sono rivolte a me dicendomi: «Padre, voglio un figlio: mi trovi un uomo». E io rispondevo: «So che hai già un matrimonio alle spalle». Al che replicavano: «Ma se non ho figli, chi mi assisterà da vecchia?». La terza ragione della fragilità della famiglia è che quando le comunità si aprono, quando le popolazioni si mescolano, normalmente i costumi si rilassano. È successo così anche in Italia, no?
Lei ha creato dal nulla in un’area molto popolare di Lima un’università cattolica con una facoltà di pedagogia e l’altra di economia, e che si occupa anche della formazione degli insegnanti. Da dove nasce tutta questa sua attenzione al fattore educativo?
Sono stato missionario in tutto il Perù, ho avviato innumerevoli opere sociali, progetti contro la povertà, ecc., ma un cambiamento della mentalità, la responsabilizzazione delle persone, non le ho mai viste accadere. Sono giunto alla conclusione che la vera causa della povertà è l’ignoranza, la mancanza di educazione. Così ho avuto l’idea di promuovere un’università che ha come scopo il miglioramento della qualità degli educatori peruviani e del senso di responsabilità verso i beni materiali. Dobbiamo formare educatori capaci di insegnare alle persone a riconoscere la propria dignità, il proprio valore: solo così si può sconfiggere la povertà. Lei avrà letto i libri di Hernando de Soto. Lui afferma che bisogna legalizzare il capitale informale dei poveri perché possano offrirlo come garanzia quando chiedono prestiti alle banche per avviare le loro attività: così si batterà la povertà. Ma quando un povero torna a casa dalla banca dove ha ottenuto un prestito, dà una grande festa per celebrare l’evento, si ubriaca e si rompe una gamba. Quello che non ha speso per la festa lo spende per le cure, e si ritrova povero come prima e in più indebitato. Per vincere la povertà serve altro.
Le Chiese evangeliche sono diventate parte del panorama religioso latinoamericano, che fino a 30 anni fa era compattamente cattolico. Per quale ragione?
Perché la natura detesta il vuoto, il vuoto viene subito riempito. Il popolo latinoamericano è naturalmente religioso e sente intensamente il bisogno della presenza di Dio nella sua vita. La Chiesa cattolica non riesce a stare dietro a questa domanda di senso religioso nella società che si inurba a ritmo vertiginoso, perché non ha e non riesce a formare abbastanza personale pastorale. E allora ecco che arrivano le Chiese evangeliche a riempire il vuoto. Se lei prende un paio di altoparlanti e si mette a pregare e a parlare di Dio all’angolo di una strada in qualunque posto dell’America latina, dopo mezz’ora avrà mille persone che la stannno ad ascoltare. Per gli evangelici è facile: basta che uno di loro sappia leggere e abbia doti di leadership ed è già un pastore in grado di riunire gente. Ma dove la Chiesa cattolica si fa presente, la gente torna da noi.
Come mai la Chiesa cattolica, dopo cinquecento anni, non ha ancora abbastanza clero in America?
Anzitutto alle origini gli indigeni sono stati esclusi dal sacerdozio per troppo tempo. Poi le Chiese hanno preferito appoggiarsi sui sacerdoti già formati che arrivavano dall’Europa piuttosto che investire risorse e fatica nella formazione di un clero autoctono. Un seminarista mi costa 2 mila dollari all’anno, 10 mila per farne un sacerdote. Meglio farli arrivare dall’estero già formati. Ma così la Chiesa non cresce. La prova del nove è il caso del Messico: negli anni Venti i governi massonici hanno proibito l’ingresso dei missionari stranieri, e la Chiesa messicana ha dovuto contare solo su se stessa. Oggi è l’unica Chiesa dell’America latina autosufficiente a livello di sacerdoti, che addirittura “esporta” all’estero. La persecuzione massonica ha prodotto il contrario di quello che si prefiggeva!

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