
Che fine hanno fatto i romeni?
Romania centrale, agosto 2007
C’è una cosa che colpisce subito percorrendo queste strade infinite della campagna romena. Non la lunga teoria delle case basse, tutte simili, tutte circondate da orti. Non gli animali liberi per la via (in fondo questa è una zona agricola). Non i tanti bambini che ciondolano qua e là in gruppetti, spettacolo normale in un paese dove il genio oratoriano di don Bosco non è mai arrivato. È l’assenza di uomini quel che salta all’occhio. Mancano gli uomini giovani, in età da lavoro. Due milioni di romeni (il 10 per cento della popolazione) sono all’estero per lavorare, dice il Financial Times. Non si stenta a crederlo. In giro si vedono anziani col carretto, ragazzi con le mucche, donne che pregano alle icone di fianco ai pozzi. Di questi quanti ne volete. Ma gli uomini sono ormai una rarità.
Tranne che nelle strade statali. Deva, graziosa cittadina al centro di un importante nodo stradale. Imbattersi in qualche coda nell’attraversare una città è una cosa normale qui. Ma questa è speciale. Un’ora, un’ora e mezza. Anche i contadini col fagotto hanno smesso di fare l’autostop. Dopo 15 ore di viaggio faccio sempre più fatica a scacciare il pensiero che era meglio se mi sposavo una bella brianzola anziché cercar moglie in queste terre. Ma non erano tutti all’estero a lavorare? «Appunto», osserva l’incolpevole consorte, «siccome sono tutti fuori, qui si fa fatica a trovare manodopera. Ci sarebbero tanti bei cantieri da mettere in piedi, ma è difficile trovare i manovali. Così certe opere, come i lavori stradali, sono quasi ferme». Già. Infatti per andare da Bucarest al confine ungherese ci si mette quasi quanto da lì a Milano.
A cena, le chiacchiere dei parenti della moglie confermano. Raccontano di quando, poco tempo fa, non si trovava più nessuno che accettasse di lavorare come portalettere (un po’ li capisco: in Italia ho ospitato anni fa un amico di queste parti che faceva per l’appunto il portalettere, il quale si meravigliava assai di vedere i postini schizzare sotto casa sullo scooter: «Noi andiamo a piedi», diceva). Allora qualche imprenditore di qui, per colmare il buco, ha pensato bene di cominciare a importare in Romania manodopera cinese, tanto laggiù sono in molti. Se non che adesso ogni tanto anche in Romania saltano su i partiti nazionalisti con slogan tipo ‘I cinesi in Cina’, ‘La Romania ai romeni’, ‘Difendiamo la nostra identità’ e via dicendo. Un po’ di aria di casa, finalmente. Manca solo qualche richiamo alle tradizioni celtiche e poi ci siamo. In fondo il sarmale che mi hanno messo nel piatto non è molto diverso dalla mia cassoeula.
Siccome tutti i parenti tornano per le ferie, questa è la stagione dei matrimoni. Domani anche noi andremo alle nozze di qualche lontano consanguineo. Andiamo dal vicino a farci ammazzare il tacchino e, finalmente, incontro un coetaneo, Vasile. C’era da aspettarselo: anche lui è appena tornato dall’Italia. Fa qualche mese là e qualche mese qui, perché c’è anche da curare le bestie, i campi, la vigna. Così, con la verdura fresca in tavola e un po’ di valuta pregiata, tira avanti senza troppi patemi. «Io muratore, due mesi Calabria, poi Milano. Meglio Milano, perché dialetto Calabria io non capire niente». Non preoccuparti, Vasile, non sei il solo.
Il matrimonio, che più romeno non si può: la chiesa bianca nella campagna, il pope, i ceri, le icone, le cantilene del rito ortodosso. E gli sposi. Lui autista a Porta Ticinese, Milano, lei infermiera a Buccinasco, sempre Milano. Inutile informarsi sui testimoni e sui cugini: stessa solfa. Quasi tutti al Nord, quasi tutti autisti di camion o di furgoni. Come sempre, il primo che va spiana la strada ad amici e parenti. Al ricevimento, per sfuggire alla musica sparata a palla per tutto il pomeriggio, quattro chiacchiere con le zie. Mi mostrano le foto dei congiunti appese alle pareti. La lingua non la capisco bene ancora, ma ‘lucru’ (lavoro) e ‘Italia’ li intendo fin troppe volte. Gli analisti internazionali dicono che in Romania è già cominciata l’immigrazione di rientro, perché la scarsità di manodopera fa salire gli stipendi e li rende nuovamente appetibili. Sarà. Per il momento, però, qui non se ne è accorto nessuno.
Un po’ di tv prima di cena. C’è il tg; scene di incendi, polizia, case prese a picconate. Cosa sarà? I parenti acquisiti vivono in campagna, perciò finora ho imparato a dire solo cose come gallina, verza, pomodoro, tacchino, cipolla. Tutte cose molto utili, ma non per capire il notiziario. Per fortuna ci sono i sottotitoli. Dunque, vediamo: in un paese non lontano la minoranza ungherese ha assalito un adiacente villaggio di zingari (dicono proprio così, tzigani), stanca dei continui furti. «Vengono tutti i giorni a rubare! Non ne possiamo più!», dice una donna inviperita. A cena, il discorso cade inevitabilmente sull’argomento. Qui se ne intendono: la Romania è una delle nazioni con la più alta percentuale di abitanti di etnia rom. Per fortuna che da tempo, complici le occhiatacce di mia moglie, ho imparato a tenere ben distinti rom e romeni. Stasera imparo altre cose. Innanzitutto che di tzigani (pardon, rom) veramente girovaghi non ce ne sono quasi più. Che vivono stabilmente in villaggi tutti per loro, o, nelle città, in quartieri separati. Che ci sono tribù di rom poverissime e altre ricche. Che ci sono quelli da cui stare lontani («noi bambini scappavamo perché volevano sempre i soldi», dice lo zio) e quelli che lavorano. Qui, ad esempio, passano tutti i giorni a vendere il pesce del vicino Olt. In buona parte, però, nell’ultimo anno se ne sono andati di gran carriera. Dove, zio? «In paesi dove la polizia è meno dura». Superfluo chiedere di che paesi si tratta.
Che tra i rom e gli altri romeni non corra buon sangue lo si vedrà anche in occasione dell’omicidio di Giovanna Reggiani a Roma all’inizio di novembre. Alcuni calcheranno la mano sul presunto razzismo degli italiani, ma quasi tutti i giornali di Bucarest se la prenderanno con l’assassino. Per colpa sua ci vanno di mezzo i romeni onesti, titoleranno. Per il momento, comunque, è sufficiente il corteo di protesta che rallenta il già caotico traffico di Bucarest: i fioristi della città, tutti rom a quanto pare, rivendicano qualcosa. La reazione dei passanti, romeni, non è esattamente amichevole, e la causa non sembra essere il traffico. Altre occasioni di incontro con questo popolo così sui generis non mancano. Del resto in Romania è difficile non incocciarci, prima o poi. Fuori da molte città si vedono quartieri di belle case diverse dalle altre. A due piani, lussuose, ricche di torrette e balconi, quasi tutte in costruzione. Sono le case dei rom, dice la moglie. Si riconoscono dall’architettura particolare. Ma dove li trovano i soldi? Glieli mandano i parenti all’estero. A metà strada, tanto per cambiare, coda. È il corteo di un matrimonio rom che attraversa il quartiere. Davanti danzano le ragazze, dietro gli uomini ci offrono carne arrosto e la loro grappa, con grandi sorrisi. No grazie, qui ti tolgono la patente anche con un dito di vino. Al confine con l’Ungheria, gruppi di rom fanno da cambiavalute in nero. La consorte, premurosa, mi mette sull’avviso: non accettare niente, soprattutto se ti fanno il gioco delle tre carte, perché fanno finta di farti vincere e poi. Alt, cara mia, guarda che noi abbiamo la scuola napoletana che non troverebbe nulla da imparare qui.
Al ritorno in Italia, il finimondo. Impennata dei reati violenti qui, il 30 per cento in meno in Romania. Bucarest ora è più sicura di Roma. Piccola criminalità in crescita esponenziale. E a colmare la misura, l’omicidio di Roma. Che sta succedendo? Lo chiediamo a don Gino Rigoldi, cappellano storico del Beccaria, il carcere minorile di Milano. Don Gino, con la sua Comunità Nuova, ha affrontato tutte le emergenze del mondo giovanile degli ultimi trent’anni. E tutte le ondate migratorie. Quella interna, quella africana, quella albanese e, adesso, quella rom. Non si contano le sue iniziative nei paesi di provenienza dei suoi ‘assistiti’. In Romania è famosa l’opera per i ragazzi di strada di Bucarest, e adesso sta per mettere in piedi due fabbriche per la lavorazione del legname in villaggi rom, in Oltenia.
Don Gino, cos’è successo in Italia?
È successo che nell’ultimo anno sono arrivate solo a Milano alcune migliaia di persone di etnia rom, che in parte hanno trovato un lavoro, ma in buona parte vivono di espedienti. Questi si sono stabiliti dove hanno trovato, in condizioni molto disagiate e senz’altro peggiori rispetto alla loro situazione di provenienza. Infatti il villaggio di partenza può essere povero finché si vuole, ma là hanno case e una struttura sociale attorno: parenti, amici, gli anziani del paese. Qui no. Qui c’è da una parte la baracca, dall’altra una socialità confusa e degradata. E non c’è nemmeno la possibilità di un futuro migliore: quelli che lavorano fanno quasi tutti i muratori, e l’abbondanza di manodopera negli ultimi mesi ha fatto crollare gli stipendi. Perciò per ora sono ancora pagati di più che in patria, ma non molto di più. Quindi è un tipo di immigrazione che occorrerebbe bloccare subito.
Ha detto bloccare?
Sì, bloccare, anche con provvedimenti politici. Altro conto sarebbe accogliere chi viene da zone di guerra, persecuzione, carestie. Per questi la porta deve sempre essere aperta. Ma quasi tutta l’immigrazione romena degli ultimi mesi non ha per niente alle spalle situazioni così drammatiche. Immigrazione di questo tipo non serve a noi e non serve a loro, perché venire qui peggiora la loro condizione. Bloccarla, invece, aiuterebbe a tutelare quello che c’è già.
In che senso?
Nel senso che le iniziative che funzionano (come il famoso campo nomadi di viale Triboniano a Milano, col suo patto di legalità) fanno arrivare molti irregolari: abitazioni decenti, possibilità di lavoro e infrastrutture attirano. E se non c’è un controllo forte per mantenere un numero ragionevole di utenti, l’afflusso indiscriminato distrugge quello che si è riusciti a fare.
Che altro si può fare?
Qui da noi occorre una politica della casa tale che possano accedere a una abitazione anche redditi bassi, altrimenti condannati alla baracca, con le ovvie conseguenze per esempio sulla scolarità dei bambini. Nel paese di origine molto potrebbero fare le nostre aziende che delocalizzano i posti di lavoro: parte degli utili potrebbero essere reinvestiti per scuole, asili, opere educative.
Opere educative, come quella che proprio Rigoldi ha messo in piedi in Romania. O come quella che c’è a Cojasca, un villaggio rom tra i più poveri, a un’ora di macchina da Bucarest. Qui da qualche anno opera la Fundatia Dezvoltarea Popoarelor (Fondazione per lo sviluppo dei popoli), il partner romeno della Ong italiana Avsi (Associazione volontari per il servizio internazionale). La Fundatia a Cojasca lavora in modo simile a quello già sperimentato in tanti altri posti come questo: sostegno alla scuola elementare (un’oasi nel mare di miseria circostante), ai maestri e agli educatori, ai genitori, doposcuola, vacanze, e altre attività educative. Ma prima di tutto questo, offre compagnia alle persone, bambini, genitori o maestri che siano. È forse quest’ultimo l’aspetto che determina il clima, assolutamente inedito, che si respira a Cojasca. Tra le casupole non si trovano vecchie zie che mostrano foto dei nipoti emigrati. Qui ai visitatori dicono: «Andarcene? La Fundatia ci ha aiutato per la scuola, ci ha dato un’istruzione, un futuro, potremo avere un lavoro. Perché andare via?». E don Rigoldi conferma: «È vero, anche dove noi abbiamo messo in piedi le nostre attività educative nessuno va via, sono tutti là».
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