
Che cosa c’entra Goethe con il Bancomat?

Che c’entra Goethe con il Bancomat?
Molto più di quanto non sembri, non fosse altro per la mostra tenuta a Francoforte nella casa Natale di questo grande della letteratura (non solo tedesca) vicino alla Banca centrale europea e alla Bundesbank, mostra dal titolo “Goethe und das Geld” (“Goethe e il denaro”).
Ma partiamo dall’Italia di oggi. La fatidica manovra economica per riequilibrare come si può il bilancio pubblico deve racimolare 30 miliardi di euro. Se le casse dello Stato incassano 600 miliardi in un anno e ne spendono (male) 640, bisogna tassare le merendine, per ora l’Iva non si tocca (per ora!) e gli italiani sono già iper tassati, così le imprese. Con le sole merendine non si ingrassa nemmeno lo Stato, e spremere un limone a cui è rimasta solo la buccia è impresa disperata.
Le società finanziarie e gli enti interbancari rivelano che le famiglie italiane transano annualmente con i pagamenti digitali (carte di credito, bancomat, ecc) circa 240/250 miliardi di euro. Quasi la metà di quanto entra nelle casse dello Stato. Le famiglie italiane non sono generalmente spendaccione, sono al 14° posto come accumulo di risparmio (ricchezza finanziaria) il cui primo posto è detenuto dagli Stati Uniti, seguiti a ruota dagli svizzeri: piccola soddisfazione, stiamo più probi di francesi e tedeschi che ci accusarono di spendere oltre i nostri mezzi.
Paradossalmente, essere troppo virtuosi non fa bene all’economia, specialmente se stiamo entrando, o siamo già, in recessione come tutti i paesi industrialmente avanzati. Si riducono i consumi, molte aziende chiudono per calo della domanda, molte altre hanno i magazzini pieni (settore alimentare come riso, pasta, pomodoro in barattoli, frutta secca, settore dolciario) e si riducono a vendere ai discount con margini molto bassi o pari allo zero.
Dunque, che c’entra il pagamento digitale? Si spende senza “accorgersi” di spendere. Estrai la carta di credito, digiti il Pin, la transazione è stata eseguita. Dopo un mese la banca addebita. Ciò che voglio oggi lo pagherò domani. Si consuma di più, non è detto che si consumi meglio. E si ingenera surrettiziamente un equivoco: i soldi che spendi non sono tuoi, ma della banca che ti permette di usarli. Cresce la paura che i soldi siano finiti, perché non si vede più denaro circolante, banconote che frusciano, monete tintinnanti.
Tutto è volatile, invisibile. J.W. Goethe queste cose le sapeva, è nato e vissuto in un mondo di banchieri, ha conosciuto il benessere e la penuria. Nel Faust, la sua opera più importante e nota, quando Faust e Mefistofele (a cui Faust ha venduto l’anima) si recano dall’imperatore, sono colpiti dalla stranezza del Paese: i fornai non cuociono più il pane, i soldati non fanno la guerra, le donne non fanno l’amore, c’è tristezza ovunque. La ragione di tale collettiva depressione è che tutti sono pieni di debiti. Allora il diavolo (Mefistofele) ha un’idea che propone all’imperatore. Se si vuole un popolo felice, bisogna annullare ogni debito [da notare che in tedesco per debito e colpa si usa lo stesso termine: schuld].
Allora l’imperatore firma una liberatoria che solleva tutti dai propri debiti e la firma imperiale rappresenta in modo legale i denari dovuti. E gli osti e le prostituite cantano, tracannando vino felici e contenti. Il denaro e le sue forme entrano nella catena simbolica della vita umana come elemento di significazione: tu sei ciò che vali. Allora si capisce quanto sia alto il rischio di affidare la rigenerazione di sé a qualcosa che, se oggi vale molto, per un processo inflattivo accidentale domani vale niente. I calcoli sono crudeli nel trasformare la hybris del possesso nel grigiore della Penuria e della Carestia. Così Faust rimane imprigionato in un mondo che non riesce a bastare a se stesso. Ed è questa la tragedia di ogni tempo.
Foto Ittigallery/Shutterstock
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