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Che c’entra il gender col bilancio Ue?

Chi ricatta chi? Polonia ed Ungheria sono “colpevoli” di ricatto economico verso il resto dell’Ue o è vero il contrario?

Renato Veneruso
19/11/2020 - 12:06
Economia
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Tratto dal Centro Studi Livatino

1. Viktor Orban e Mateusz Morawiecki, Primi Ministri rispettivamente di Ungheria e Polonia, vengono descritti in queste ore da larga parte dei media come gli affamatori delle genti d’Europa, bisognose delle provvidenze economiche del Recovery Fund dell’UE. L’annuncio di negare la loro approvazione al bilancio dell’Unione per il periodo 2021-2027, che deve ottenere l’assenso degli Stati membri prima dell’approvazione da parte del Parlamento europeo, è tacciato in modo quasi unanime come un ricatto per sottrarsi alla condizionalità sullo Stato di diritto, sulla quale il Parlamento europeo e la presidenza tedesca del consiglio dell’Ue hanno raggiunto un accordo preliminare, che dovrebbe essere definitivamente approvato in occasione della odierna seduta del Consiglio europeo (su di esso).

L’iniziativa di veto di Ungheria e Polonia in realtà è una reazione al voto su tale accordo, in virtù del quale il Consiglio europeo – di cui sono parte i capi di Stato e di governo degli Stati membri – può deliberare a maggioranza, mentre bilancio e risorse proprie devono essere concordate all’unanimità; sullo stato di diritto è sufficiente la maggioranza dei due terzi.

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2. Il diniego è arrivato dagli ambasciatori dei due Stati durante la riunione del COREPER, che riunisce i 27 rappresentanti dei membri UE, e ha bloccato la decisione preliminare sulle c.d. risorse proprie, che deve essere approvata dagli Stati prima di essere ratificata dalle autorità di bilancio nazionali ed entrare in vigore. Si tratta della base giuridica per costituire la garanzia per il finanziamento del Recovery Plan, come spiegato dal portavoce della Presidenza tedesca del Consiglio Ue, Sebastian Fischer, il quale ha precisato: «i due Stati membri hanno espresso la loro opposizione rispetto ad un elemento del pacchetto (la condizionalità sullo stato di diritto, appunto) ma non sulla sostanza dell’accordo sul Bilancio», mentre il portavoce del governo ungherese, Zoltan Kovacs, su Twitter scrive: «Non possiamo sostenere il piano nella sua forma attuale, che lega i criteri dello Stato di diritto alla decisioni sul bilancio. Va contro le conclusioni del Consiglio Europeo di luglio».

La decisione comunicata al COREPER fa seguito alla lettera inviata agli inizi di ottobre alla Commissione europea dai due premier, che annunciava appunto il veto sul bilancio: Orban ha lamentato la somiglianza della condizionalità dello Stato di diritto al «ricatto ideologico» praticato dall’Unione Sovietica e «se approveranno davvero questo regolamento avremo creato un’Unione Sovietica fuori dall’Unione Europea». Zbigniew Ziobro, il ministro della giustizia polacco, ha invece descritto il meccanismo dello stato di diritto come un tentativo della presidenza tedesca di controllare la Polonia, richiamando echi sinistri del secolo scorso.

3. Dunque, Polonia e Ungheria sono passate dagli annunci alle decisioni concrete e il COREPER non ha raggiunto l’unanimità necessaria per dare il via libera agli accordi sul bilancio 2021-2027 e avviare la procedura scritta per l’ok sull’aumento dei massimali delle risorse proprie dell’Unione, necessario per garantire l’emissione dei bond anticrisi per 750 miliardi. Si sono dovuti limitare ad approvare l’intesa con il Parlamento europeo sulla condizionalità dell’uso dei fondi europei legata al rispetto delle regole dello stato di diritto, il vero bersaglio dei governi di Budapest e Varsavia. Se entro pochi giorni non si troverà una soluzione, ci sarà effettivamente il rischio di avviare il 2021 senza bilancio Ue il che, a catena, farebbe ritardare l’emissione dei bond anticrisi.

Il meccanismo di condizionalità prevede, infatti, la possibilità di bloccare l’esborso delle risorse ottenibili dal piano straordinario di indebitamento dell’Unione, c.d. Recovery Fund, per ovviare alle esigenze economiche dei Paesi maggiormente in difficoltà in conseguenza delle restrizioni e chiusure per la pandemia Covid-19, in danno di chi – come Ungheria e Polonia -, siano ritenuti “colpevoli” di violare i princìpi fondamentali su cui fonda la UE, sanciti dall’art. 2 TUE. Ma davvero l’Europa democratica e solidale ha bisogno di Paesi che vogliono sottrarsi al controllo del loro rispetto? La risposta è molto meno scontata di quanto non si voglia far apparire.

4. In primo luogo va chiarito che il contrasto, che si è voluto presentare come uno scontro fra il blocco di Visegrad, di cui fanno parte anche Repubblica ceca e Slovacchia, e i c.d. “frugali” – i Paesi nordici tra cui Olanda, Danimarca, Finlandia e la stessa Austria, che avevano provato a limitare il sostegno finanziario dell’UE verso gli Stati del Sud inizialmente più colpiti dalla pandemia, come Italia e Spagna -, è a ben vedere piuttosto il frutto delle iniziative del Parlamento europeo, la più recente delle quali è la risoluzione votata il 16 gennaio 2020 ad ampia maggioranza.

Con essa si è deplorato lo scarso coinvolgimento del Parlamento di Bruxelles nelle audizioni in corso con Ungheria e Polonia, che hanno portato i due Stati membri a non riallinearsi ai valori fondanti dell’Unione europea, nonostante le relazioni e le dichiarazioni della Commissione Ue e degli organismi internazionali, come l’Onu, l’Osce e il Consiglio d’Europa, denuncino che «la situazione sia in Polonia che in Ungheria si è deteriorata sin dall’attivazione dell’articolo 7, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea», che può portare anche alla sospensione di alcuni dei diritti, compresi quello di voto in sede di Consiglio europeo.

«L’incapacità del Consiglio di applicare efficacemente l’articolo 7 continua a compromettere l’integrità dei valori comuni europei, la fiducia reciproca e la credibilità dell’Unione nel suo complesso»: così si legge nel testo della risoluzione, che chiede alla Commissione di utilizzare gli strumenti disponibili per far fronte a un evidente rischio di violazione in materia di democrazia, Stato di diritto e di rispetto dei valori stabiliti dall’articolo 2 del Trattato da parte di Polonia e Ungheria, con particolare riferimento alle procedure d’infrazione accelerate e alle domande di provvedimenti provvisori dinanzi alla Corte di Giustizia Ue.

Il riferimento è alla promozione della procedura, prevista dall’art. 7 par. 1 TUE per il caso di conclamata violazione dei princìpi di cui all’art. 2 dello stesso TUE, di cui alla risoluzione del Parlamento europeo del 12.9.2018, giunto a conclusione dopo un processo che ha visto sette (!) omologhe precedenti risoluzioni, la più risalente delle quali è addirittura del 2011. Con la risoluzione del 12.9.2018 si è formalmente impegnata la Commissione UE a «recare invito al Consiglio a constatare, a norma dell’art. 7, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea, l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave da parte dell’Ungheria dei valori su cui si fonda l’Unione». Alla risoluzione è poi allegata la proposta di decisione suggerita al Consiglio di constatazione dell’esistenza in Ungheria del suddetto rischio di violazione dei valori fondanti dell’Unione: il «rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze»(…) . (…) «questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini».

L’iniziativa del Parlamento europeo ha fatto seguito a omologa procedura di infrazione attivata dalla Commissione nei confronti della Polonia l’anno precedente.

5. In caso di violazione di tali valori – traggo la ricostruzione dall’articolo pubblicato su Federalismi.it a firma di Curti Gialdino il 26 settembre 2018 -, i trattati istitutivi dell’Unione europea prevedono, fin dal trattato di Amsterdam del 1997, un sistema di accertamento e sanzionatorio. Dopo le modifiche del trattato di Lisbona del 2007, esso si articola in una fase preventiva, che può essere attivata da un terzo degli Stati membri o dalla Commissione o, come nel caso in esame, dal Parlamento europeo.

A seguito dell’iniziativa, ai sensi dell’art. 7, par. 1 TUE, che avvia la procedura e che prende le forme di una proposta motivata di decisione del Consiglio, quest’ultimo può accogliere la proposta e adottare la constatazione dell’esistenza di un evidente rischio di violazione grave dei valori summenzionati, dopo aver ascoltato lo Stato membro in questione e dopo avergli rivolto, eventualmente, delle raccomandazioni. Qualora tale Stato non modifichi la legislazione nazionale, che può avere, come nel caso di specie, pure rango costituzionale, il «rischio» di cui si tratta si trasforma in una violazione «grave e persistente».

In questo caso, secondo l’art. 7, par. 2 TUE, il Consiglio europeo, che delibera all’unanimità, su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare l’esistenza della violazione grave e persistente dei valori fondanti dell’Unione, dopo aver invitato lo Stato membro interessato a presentare osservazioni. In presenza della constatazione del Consiglio europeo, il Consiglio, in virtù dell’art. 7, par. 3 TUE, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio.

6. Tra le preoccupazioni espresse dal Parlamento con detta risoluzione vi sono quelle relative ai «diritti delle persone appartenenti a minoranze, compresi i rom e gli ebrei, e la protezione dalle dichiarazioni di odio contro tali minoranze».

In particolare, laddove la Risoluzione «ritiene che i fatti e le tendenze menzionati nell’allegato della presente risoluzione rappresentino, nel complesso, una minaccia sistemica per i valori di cui all’articolo 2 TUE e un evidente rischio di violazione grave dei suddetti valori», è possibile leggere quanto segue, al paragrafo 49 di tale allegato:

«Nelle sue osservazioni conclusive del 5 aprile 2018, il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per il fatto che il divieto costituzionale di discriminazione non include esplicitamente l’orientamento sessuale e l’identità di genere tra i motivi di discriminazione e che la sua definizione restrittiva di famiglia può dare adito a discriminazioni poiché non contempla taluni tipi di famiglia, comprese le coppie dello stesso sesso. Il Comitato ha inoltre espresso preoccupazione per gli atti di violenza e la diffusione degli stereotipi negativi e dei pregiudizi nei confronti delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender, in particolare nei settori dell’occupazione e dell’istruzione».

Chi ricatta chi, per riprendere lo sgradevole verbo più in uso sui media nel qualificare la vicenda? Polonia ed Ungheria sono “colpevoli” di ricatto economico verso il resto dell’UE? O al contrario la gran parte delle istituzioni comunitarie intende approfittare della pandemia per imporre alle Nazioni riottose i propri diktat sull’identità di genere, mascherandole dietro il rispetto omogeneo dello Stato di diritto?

Foto Ansa

Tags: Europapoloniarecovery fundungheria
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