Caso Ricci, prosciolto dopo tre anni. «La mia libertà condizionata»
Dopo un percorso interminabile, l’azione disciplinare dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia nei confronti del dottor Giancarlo Ricci, a seguito di esposti su sue dichiarazioni rilasciate nel corso di una trasmissione televisiva del 2016, si è conclusa con un proscioglimento. La vicenda è abbastanza nota: Ricci partecipa ad un accalorato dibattito nel corso della trasmissione “Dalla vostra parte” condotta da Paolo Del Debbio su Rete 4, che aveva come tema “Mentre il parlamento discute la legge sulle unioni civili, il paese si riscopre omofobo?”; lì si ritrova con vecchie volpi dei talk-show televisivi come Vladimir Luxuria, Franco Grillini, Maurizio Gasparri. Com’è intuibile, riesce a fatica a parlare per tre minuti dei 45 della trasmissione, sovrastato e continuamente interrotto dalle voci altrui. Ma tanto basta perché qualcuno se ne abbia a male e lo denunci all’Ordine. Comincia così una vicenda dai contorni inquietanti, che forse non è ancora arrivata alla parola “fine”.
Dottor Ricci, è soddisfatto dell’esito dell’azione disciplinare nei suoi confronti o ha qualcosa di cui lamentarsi?
Sono contento perché dopo 3 anni e 2 mesi l’esito è quello che io e i miei avvocati auspicavamo; soddisfatto no, perché le motivazioni della delibera sono costellate di omissioni e di semplificazioni, e da una logica che afferma che il mio pensiero è problematico e non è in linea con quanto i consiglieri dell’Ordine ritengono adeguato. Rimane un profondo sospetto nei miei confronti, anche se non si traduce in sanzione grazie alla linea difensiva dei miei avvocati (Davide Fortunato e Valeria Gerla): la rivendicazione della libertà di parola e l’esiguo tempo a mia disposizione per chiarire il mio pensiero. Inoltre abbiamo cercato di ricusare due membri del consiglio giudicante portando documentati motivi che attestavano “grave inimicizia”, di matrice ideologica, verso il sottoscritto. Ma la ricusazione è stata respinta.
Effettivamente il dispositivo della sentenza dà l’impressione di un’assoluzione per insufficienza di prove. Nella parte conclusiva c’è scritto: «Pur permanendo irrinunciabili perplessità in ordine a orientamenti dottrinali e scenari metodologici a cui le affermazioni del dottor Ricci potrebbero voler fare riferimento, e nell’impossibilità in sede disciplinare di poter affermare oltre ogni ragionevole dubbio che tale diretto collegamento vi sia, ritiene questo Consiglio di non poter sanzionare il comportamento tenuto dall’iscritto». Le perplessità sono sufficienti a scatenare un interminabile procedimento disciplinare?
Questo è il paradosso. È bastato che un gruppo di psicologi che militano in un’associazione pro gay facesse un esposto perché si arrivasse alla procedura disciplinare, passando per la commissione etica dell’Ordine degli Psicologi. Io ho risposto per iscritto e nel dibattimento a quanto mi veniva rimproverato nell’esposto, punto per punto, confutando le accuse. Nel dispositivo della delibera di tutto questo non c’è traccia, per cui possono permettersi di scrivere che «permangono irrinunciabili perplessità». Io ritengo che l’Ordine degli Psicologi abbia voluto che il procedimento nei miei confronti durasse più di tre anni come forma di intimidazione e come modo per paralizzare alcune mie attività pubbliche.
Eppure la delibera in alcuni passaggi sembra suggerire che se il procedimento è durato tanto, è per colpa sua.
Io ho esercitato il diritto alla difesa ricusando due consiglieri, ma non può essere questa la ragione delle lungaggini: potevano risolvere tutto in pochi mesi, se volevano. A me pare che i tre anni e due mesi siano serviti a loro per sistemare le cose secondo una logica politica. Nel Consiglio c’è una componente “colpevolista” nei miei confronti che è espressione di un certo elettorato pro gender favorevole all’omosessualismo delle associazioni Lgbt. Si capisce dunque che un proscioglimento non potesse avvenire basandosi sul fatto che non ho detto niente di problematico. Hanno dovuto trovare una mediazione che soddisfacesse le esigenze politiche in gioco mantenendo, in modo contorsionistico, una correttezza formale.
Nella delibera a un certo punto si afferma che le viene contestato non ciò che ha detto, ma “come” lo ha detto. Tuttavia il dispositivo nella prima parte elenca frasi precise fra virgolette, tratte dalle sue dichiarazioni televisive, che costituiscono gli addebiti contro di lei. Cosa significa tutto ciò?
Anche questo è un controsenso. Credo che significhi: Ricci ha parlato come se quello che diceva coincidesse con la posizione ufficiale dell’Ordine degli Psicologi, con le linee guida dell’Ordine Nazionale o di organizzazioni internazionali. È come se mi accusassero di essere un impostore che ha fatto passare le proprie idee per quelle di tutto l’Ordine. Dunque come se soggettivamente non potessi avere ed esprimere un mio pensiero, come se fossi stato un rappresentante dell’Ordine: assurdo. Inoltre avrei dovuto citare le fonti scientifiche delle mie affermazioni. Ma questo è fantascientifico in un talk-show dove ti tolgono continuamente la parola.
È vero che ci sono altre azioni disciplinari in arrivo nei suoi confronti?
Nel 2017, 2018 e 2019 sono stati presentati altri esposti contro di me. Due di essi sono anonimi. Una persona mi ha denunciato perché gli avrei detto che pratico la terapia riparativa, mentre in realtà io gli ho detto che non faccio la terapia riparativa ma che prendo in cura l’omosessualità ego distonica, l’orientamento problematico verso persone dello stesso sesso, che nel suo caso avrebbe riguardato un figlio 18enne. Questo modo di agire dice di un odio ideologico che diventa odio sociale, dice di un’intolleranza e di una denigrazione verso colui che è portatore di un pensiero differente. Un altro esposto – anonimo – consiste in cinque screenshot di pagine Facebook che documentano miei “like” a post riguardanti l’omosessualismo, la terapia riparativa, ecc. Da essi si dovrebbe desumere che io contravvengo al codice deontologico degli psicologi. Cose da regime poliziesco! Il terzo esposto si riferiva a mie dichiarazioni fatte nel 2012 al Giornale e dunque prescritte.
Questi esposti porteranno a nuove azioni disciplinari o sono stati archiviati?
Non ho avuto notizie da parte dell’Ordine. Devo presumere che almeno il più vecchio, quello del 2017, sia stato archiviato. Il terzo esposto, quello che si riferiva a dichiarazioni fatte nel 2012 dovrebbe essere caduto in prescrizione. Ma nemmeno questo mi è stato comunicato, e questo fatto assomiglia molto a una forma di intimidazione: mi si tiene sotto pressione con queste mancate comunicazioni. È una forma di libertà condizionata.
Pensa che riuscirà mai a chiarire la questione delle terapie riparative?
Ho scritto tre libri, in particolare quello intitolato Il padre dov’era?, dove le terapie riparative mi interessano solo nella misura in cui hanno rappresentato un primo tentativo, anche se discutibile dal punto di vista scientifico e tecnico, di mettere in questione l’ambito complesso della genesi dell’omosessualità. C’è un’effettiva complessità clinica che nei manuali scientifici viene minimizzata affermando che l’omosessualità egodistonica dipende principalmente da un’omofobia interiorizzata, ma questa versione è parecchio discutibile. In sostanza si dà la colpa alla società, e questo è un teorema caratteristico della nostra epoca, segnata dal trionfo del vittimismo: prima si crea il concetto di vittima, lo si alimenta mediaticamente, poi si esige una serie di diritti che pretendono una compensazione. Nei paesi nordici si pratica la discriminazione positiva, e questo significa per esempio che chi ha subito una discriminazione diventa titolare di privilegi. Dichiararsi vittime, come dimostra uno studio di Robert Castel, oggi è il modo più facile per vantare dei crediti. Su questo tema c’è anche un libro interessante scritto da un gruppo di giuristi intitolato Il traffico dei diritti insaziabili che spiega questi meccanismi e quale sia il disegno della società neoliberista nel favorire un’ideologia del vittimismo. Il movimento Me Too è l’esempio più recente di questa logica che dal punto di vista psichico è molto problematica. È una sorta di giustizialismo a ritroso. Mi ricorda la dottrina di Lutero del peccatum manens, mi ricorda il puritanesimo estremo coniugato con un concetto di responsabilità assoluta, senza scampo. Questo comporta un obnubilamento della realtà effettiva, perché svanisce l’istanza del tempo, della memoria e in un certo senso della giustizia. Prevale la pretesa ideologica di puntualizzare e definire tutte le cose accadute in categorie rigorose. È un principio poliziesco, inquisitorio.
Contro lei sono stati usati metodi polizieschi, inquisitori?
Da parte degli esposti sì. L’unica cosa di cui sono riconoscente all’Ordine è che questa vicenda ha suscitato in me un’indignazione che mi ha spinto a raccontare in un libro le traversie che mi hanno coinvolto. La mia vicenda è un caso minuscolo di fronte al tema del funzionamento della libertà nella nostra epoca. Oggi accade qualcosa che il polemista Karl Kraus riassume in un aforisma notevole: «Abbiamo conquistato la libertà di pensiero. Adesso ci vorrebbe un pensiero». Mai come oggi ci vorrebbe un pensiero in grado di progettare la complessità del futuro. La realtà che viviamo è più problematica e urgente delle disquisizioni dell’establishment. Non a caso il libro, che s’intitola Il tempo della post-libertà, reca un sottotitolo: destino e responsabilità. Cioè: qual è il destino della nostra società se nessuno si assume realmente la responsabilità di esso? E, su un altro versante, qual è il destino di un soggetto se questi non si assume la responsabilità verso se stesso? Oggi un individuo o si impegna nella propria e nell’altrui responsabilità, o resta nel mondo della suggestione, nell’ipnosi, nella spettacolarizzazione, nel teatrino della mondanità e di tutte quelle forme illusorie che danno l’impressione che ci sia una realtà che funziona e che regge. Difficilmente si accorge che la realtà è un’altra, radicalmente altra.
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