
Carlo Pastori o della necessità del clown
Pubblichiamo l’articolo uscito sul numero 04/2012 di Tempi.
Sei il Claudio Bisio dei poveri? «No, semmai è Bisio il Carlo Pastori dei ricchi. E poi io lavoro molto più di Bisio: per guadagnare come per una serata di Bisio io ne devo fare almeno 45». Il fatto è che ha iniziato a cucirselo addosso presto, quel viziaccio di parlare di Gesù. Come parlasse, ancora bambino, di Boninsegna o del maestro Guerino Pesaola, zio peraltro del Petisso, l’allenatore. Per esempio. Lui dice che i giorni e le ore non si ricordano se non c’è questo Gesù presente e quel giorno del 1970 doveva essere seduto vicino a lui. Il maestro Pesaola stava pescando da un cappello il nome del fortunato che sarebbe andato in rappresentanza della scuola a ritirare un premio, vinto con la recita I misteri pasquali, e il nome – lui, seduto all’ultimo banco, lo sapeva già – sarebbe stato il suo. E infatti, «è il tuo, Pastori». Così l’alunno Pastori Carlo, classe quinta B dell’Elementare Tito Speri di via Lulli, a Milano, venne portato dal padre all’Arengario proprio il giorno in cui (se mai il piano provvidenziale non gli fosse ancora chiaro) venivano “arruolati” i Bravissimi, giovani talenti inviati d’estate a far spettacolo per le maestranze emigrate in Europa. Si girò dunque i cantieri di Svizzera, Germania, Belgio, Portogallo. E imparò a suonare la fisarmonica. Fu allora che Carlo Pastori prese una decisione: «Iniziai a fumare. A undici anni nelle cave svizzere giravano stecche di Kent grosse così».
La “fisa”, i Pelatters e Lo shampoo
Poi ha smesso, eh? Di fumare, ma anche di lavorare. C’è voluto un po’ perché un giovane pubblicitario lasciasse la scuderia di J. Walter Thompson negli anni in cui l’agenzia milanese sfondava con gli spot di Beppe Grillo per Yomo, le campagne di Benetton, il claim di De Beers “Un diamante è per sempre”. Ma alla fine era accaduto: esauriti ferie, permessi e malattie per dar retta ai suoi molti pallini – suonare musica popolare col gruppo La Signora Stracciona, far l’intrattenitore ai matrimoni e il cantastorie per sopravvivenza domestica – decise finalmente su che barca salire. Un giorno era su, al numero 28 di via Durini, in giacca, cravatta e sigaretta a fare soldi, il giorno dopo era giù, in piazza San Babila con naso rosso, muso bianco e fisarmonica, a fare ridere la gente al Carnevale Ambrosiano. È il 1987 e quel Teatro d’Artificio nato così, in meno di un anno, sulla strada e con due amici, Bano Ferrari e Roberto Abbiati, più che una barca pare una scialuppetta, ma Patrizia, «mia moglie, ho avuto quattro figli, Giacomo, Giovanni, Elia e Martino, e tutti con lei!», non si oppone, anzi lo incoraggia. Lei alla Provvidenza ci crede davvero, Pastori può così dedicarsi a tempo pieno a un mestiere che boh, «per i comici faccio il musicista, per i musicisti faccio l’attore. Ma per entrambi faccio i traslochi» e là, nel limes artistico insieme agli amici della Filarmonica Clown incontra un maestro della clownerie moderna, il ceco Bolek Polivka, e impara quel modo lì di fare le cose, alla maniera dei contadini e dei pescatori che vedono venire su qualcosa dove sembrava non ci fosse niente. Un modo che racconta di giorno, in strada, ma anche di notte, in teatro: Milano è un palcoscenico da calcare senza sonno, fatto di gavetta, minestra e filastrocche, fumo e bicchieri di rosso: questo a Carlo piaceva mentre andava in onda alle prime luci dell’alba con I Martesana in corpore sano, improbabile formazione musical/parodistica tirata su con gli amici Claudio Bisio, Flavio Oreglio, Ale & Franz, che attraverso il repertorio dei Gufi resuscitavano la tradizione cabarettistica meneghina degli anni Sessanta. Allora Zelig non era il fenomeno Zelig da prima serata, «il nostro era l’ultimo numero e andava in onda quando il pubblico era composto da panettieri che facevano colazione, spazzini muniti di video sul camion dei rifiuti, prostitute e viados al ritorno dal, ehm, lavoro».
Un modo che avrebbe usato anni dopo anche a Colorado Café o a Zelig Circus, esibendosi con l’immancabile “fisa” e gli altri “Pelatters” Bisio, Paolo Cevoli e Sergio Sgrilli, «tutti a cantare Lo shampoo di Gaber», e che gli sarebbe valso, per l’esibizione al Derbino il 1 aprile 2006, il riconoscimento della giuria e del pubblico nel Premio Nebbia, Festival del cabaret e della comicità Città di Milano. «Sono stato impastato, io, a musica e teatro», la prima resta dopo e arriva prima, «le mie canzoni sono arrivate in Australia, e chi c’è mai stato in Australia?», il secondo non annacqua mai la cifra originale, ed ecco rivivere in Perchè gli angeli volano? e in Non moriamo neanche se ci ammazzano i racconti e il genio di G. K. Chesterton e di Giovannino Guareschi. Con lui gli amici di sempre, il musicista Walter Muto e lo studioso di letteratura Paolo Gulisano. Atomi di un’umanità contagiosa che avvicenderà attorno a Carlo Pastori un mosaico di nomi dello spettacolo, da Nanni Svampa a Van De Sfroos, da Teo Teocoli a Max Pisu. E poi ci sono loro, quelli “di casa”. Sì perché negli anni 90 Carlo trasferisce la famiglia in una grande cascina di Treviglio. Dove oggi vive con altre venti famiglie, che passano sulla loggia a fargli assaggiare la grappa alla sera o ad ascoltarlo suonare la “fisa” la domenica. Per non sbagliare, e continuare a mantenersi i figli alle scuole libere e portarseli in vacanza, ha anche assunto la direzione artistica del Teatro di Limbiate (Mb) e si è messo a fare l’impresario. «Sono un microimprenditore, ho anche un furgone e una sala prove tutta mia, e pure dei costi». Non lascia tuttavia la sua piazza più amata: la grande Milano, il suo infinito spazio per infinite storie.
Il mistero allegro della morte
Ed ecco i Navigli prendere il posto della Senna, le osterie milanesi quello dei bistrot parigini, l’abbazia di Chiaravalle quello della chiesa di S. Maria di Batignolles. In una Milano piovosa e inospitale Pastori riambienta insieme a Marino Zerbin La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth, la storia di Andrea che «De Diu sun matt, se streppa la cunscienza./Vu ‘n gir, el pensi, me ‘l remèni, e vu…/ E püssé ‘l pensi, e pü gher sun luntan» (Di Dio sono pazzo, si strappa la coscienza. Vado in giro, lo penso, me lo rimugino, e vado… / E più lo penso, e più sono lontano!), recita una delle due poesie di Franco Loi scelte per raccontare la redenzione dell’uomo mendicante. La stessa Milano di Prima che venga notte, dove con Walter Muto e le attrici della Compagnia Almadeira riadatta i racconti della giornalista Marina Corradi. E dove, «Fra le gru illuminate dei cantieri che cominciano a scaricare pesi,/ i Tir carichi in Tangenziale,/ i garzoni di corsa,/ … respira e vive una tenace voglia di lavorare – cioè, trasformare la realtà per gli uomini».
E Gesù? Un vecchio attore di teatro, all’inizio della sua carriera, gli disse: “Noi non moriremo finché avremo una storia da raccontare”. Poi «è morto, poveretto. Ma le cose da raccontare, quelle non muoiono e nemmeno vanno in crisi. Il mio, sai, l’ultimo livello del terziario: se uno decide di tagliare sul teatro il primo teatro che taglia è proprio il mio; eppure Lazzaro, vieni dentro! – vincitore della sezione professionisti del Bando del Festival I Teatri del Sacro, indetto da Federgat – è alla dodicesima replica, e ce ne saranno altre venti da qui ad aprile». Ed è qui che c’entra il Principale, con quella sua maniera un po’ curiosa di mettere insieme Pastori e tutto quello che è “play” – recitare, suonare, giocare –: Giampiero Pizzol che sta scrivendo un testo sull’ultimo miracolato, Pastori che lo incontra a Rimini e decreta «Lazzaro sono io!», Pizzol che cuce addosso a lui e alla sua amica e collega Marta Martinelli uno spettacolo sul mistero allegro di un uomo ripescato dal regno delle ombre e riportato alla sorella dall’amico Gesù.
Lucia, Martino, Riso e prezzemolo
E poi. Poi accade che Luciana, la mamma di Pastori, se ne vada in cielo e che quell’ultimo quarto d’ora di rappresentazione in cui Lazzaro racconta a Marta il mistero della morte e della seconda possibilità, diventi l’umanissima speranza di un figlio a cui non resta che riarrangiare il dolore con le grazie ricevute: «Poi, grazie al Cielo è arrivata la musica/così che quando mi sentirò solo/la potrò sempre suonare per te», scrive dedicando a mamma Luciana la canzone Riso e Prezzemolo, la testa piena di nostalgia e il cuore colmo di gratitudine. Del resto lui lo dice sempre, «la gratitudine è la benzina che mi spinge a continuare in questo bellissimo e faticoso lavoro», dove albergano, insieme all’attore, il cantante, il fisarmonicista, il papà, l’amico, e l’uomo. Che, raccontandola, impatta continuamente con la realtà. Come quella volta, dopo il concerto di Rimini, che Gigi e Michela lo hanno raggiunto sotto il palco e Carlo ha impattato con la storia della loro bimba Lucia, che rallegrava l’ospedale con i Monelli e i Cavoli a merenda inventati da quel signore con la fisarmonica e che volle ascoltare la sua ninnananna Vola cigno, cantata da mamma e papà, prima di addormentarsi per sempre. O come quella volta che in treno un papà disse al suo bimbo, «guarda, c’è il Carlo Pastori delle canzoni che ti piacciono», e quello «maddai, Carlo Pastori non esiste». O quella volta che il figlio Giacomo, dopo una “panne” notturna sotto la pioggia se ne uscì con «papà, la sfortuna ci sorride!», o quando Martino, l’ultimo, chiese a un compagno di banco il primo giorno di scuola «il tuo papà, di lavoro, che spettacoli fa?».
Allora si ride, e a ben vedere. Perché come diceva Guareschi, l’umorista non è uno che ride di tutto. Anzi, è uno che sa bene di non poter ridere di tutto. E per questo ingrandisce e sottolinea gli aspetti più grotteschi, per rapire lo spettatore e allo stesso tempo destarlo sul significato più profondo di tanta sproporzione. «Banalmente, se devo far passare qualcosa io devo fare ridere, se voglio raccontare il viaggio dei Magi io devo fare uno spettacolo come La stella com’era?». In mezzo, sempre quel Gesù sedutosi in una classe di quinta di quarant’anni fa. «Mi piacciono i suoi amici. Lazzaro, Zaccheo il corto, il faccione di Pietro che è… il Garrone del libro Cuore». Per Carlo Pastori la gente ha un gran bisogno di tipi come loro oggi. E di tipi come lui, «i comici sono da sempre emersi nei periodi più faticosi della storia. Più era smarrita tra fame, guerre, crisi economiche più la gente li cercava, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Walter Chiari. Già, crisi economiche. Vuoi vedere che è la volta che sfondo?».
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