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Cari amici del Fatto, proprio con la comunità che ospitava Pamela dovevate prendervela?

"Alla comunità ispirata a don Giussani 100 euro al giorno per ogni ospite", titola il quotidiano. Qualche appunto su un articolo pieno di accuse scombiccherate

Pietro Piccinini
12/02/2018 - 14:09
Interni
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Come se intorno alla morte di Pamela Mastropietro non si fossero già fatte abbastanza strumentalizzazioni, qualche giorno fa il Fatto quotidiano ha pensato bene di sfruttare l’orribile massacro della 18enne romana per rovesciare qualche accusa infamante sulla Pars, la comunità socio-sanitaria di Corridonia alla quale la giovane era stata assegnata dal Sert di Roma, e dalla quale si era allontanata poche ore prima di essere uccisa.

La “sostanza” dell’articolo di Sandra Amurri, inviata del Fatto a Macerata, è nella denuncia della famiglia della vittima:

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«La famiglia ha denunciato la Comunità come spiega lo zio, l’avvocato Marco Valerio Verni, delegato alle Politiche giuridiche e legalità di Fratelli d’Italia: “Alla Pars hanno fatto tutto il possibile per evitare che scappasse? Se l’avessero bloccata i genitori non li avrebbero mai denunciati”».

Se si tratti di una vera e propria denuncia da tribunale o di una generica accusa di negligenza, dall’articolo non è dato capire. Ma sicuramente, senza bisogno di alcun accertamento della magistratura né tanto meno di un processo, il Fatto sembra avere già individuato un’aggravante a carico della Pars. Tanto è vero che il titolo del pezzo non riguarda nemmeno la versione dell’avvocato Verni, ma sottolinea una colpa ben più grave:

“Alla comunità ispirata a don Giussani 100 euro al giorno per ogni ospite”.

Dove il motivo dello scandalo evidentemente non è nemmeno il fatto che un ospite alla Pars costi al sistema sanitario 100 euro, bensì che si tratti di una realtà «che fa riferimento a don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione», come scrive la Amurri. Qualunque cosa voglia dire questo “fare riferimento” a un sacerdote morto dodici anni fa.

Siamo certi che il nostro amico José Berdini, responsabile della comunità, saprà chiarire tutto quello che ci sarà da chiarire con chi di dovere, se le contestazioni formulate dalla famiglia di Pamela e riportate acriticamente dal Fatto dovessero mai richiedere un approfondimento formale. Quello che ci interessa qui è solo evidenziare il livello a cui può arrivare ad abbassarsi un certo tipo di giornalismo.

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Innanzitutto perché il Fatto non ha ritenuto nemmeno di dover sentire la versione di Berdini. E dire che la Pars si è spesa non poco, negli ultimi giorni, per replicare civilmente alle accuse che le sono state scagliate addosso in un momento già di per sé molto drammatico: basta dare un’occhiata alla pagina Facebook della comunità per rendersene conto. Va bene che ogni scusa è buona per bastonare i seguaci di don Giussani, ma cari amici del Fatto, che cosa volete fare del vostro giornale? Una denuncia vale sempre un titolo, senza se e senza ma? Oppure – il che sarebbe perfino peggio – sono solo i “nemici” che non meritano il diritto di difendersi?

Comunque sia, anche un’accusa avrebbe bisogno di un minimo di logica per meritare di finire in pagina. Ma quella (velata) messa in bocca all’avvocato Giuseppe Bommarito di Macerata, padre di un ragazzo morto per overdose e presidente di una associazione che lotta contro la droga, è una insinuazione che ha dell’incredibile.

«Le comunità, anche quelle convenzionate, non vengono controllate. Spesso i tossicodipendenti vengono considerati “merce umana” da far fruttare in termini di retta giornaliera rimborsata dalla Regione».

Amici del Fatto, ma davvero volete far credere che, in una regione non esattamente democristiana come le Marche, una comunità «che fa riferimento a don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione» può permettersi di incassare «100 euro al giorno per ogni ospite» e pensare di spenderli in gozzoviglie senza aspettarsi almeno due o tre controlli l’anno? Scommettiamo che sono più tre che due?

E poi scusate, mettiamo pure che davvero la Regione versi alla Pars «100 euro al giorno per ogni ospite», ma per quale motivo questo dovrebbe scandalizzare il lettore, visto che il titolo e l’articolo si limitano a riportare la cifra? Forse che ogni euro versato a un amico di don Giussani è comunque un euro rubato? È così? Amici del Fatto, lo sapete quali “sistemazioni” residenziali alternative esistono in Italia per i tossicodipendenti, a parte la strada? Avete una minima idea di quanto costi, e non solo in termini economici, rinchiuderli tutti in carcere o nei reparti di neuropsichiatria? Bastano un paio di ricerchine su Google.

(Tra l’altro, amici del Fatto, sicuri che ammiccare continuamente alla liberalizzazione delle “droghe leggere” contribuirà a fare risparmiare al contribuente i 100 euro al giorno che si intasca la Pars? Voi le farete ricche, le comunità di recupero, altro che. O credete davvero che quando la “droga leggera” sarà servita in farmacia poi magicamente il problema dei tossicodipendenti sparirà e non aumenterà invece enormemente il rischio che si moltiplichino i casi Pamela?).

Ma torniamo un attimo sulla presunta negligenza intorno a cui è costruito l’articolo di Sandra Amurri: se i responsabili della Pars «avessero bloccato» Pamela, sostiene l’avvocato della famiglia Mastropietro, «i genitori non li avrebbero mai denunciati». La famiglia di Pamela naturalmente ha il diritto di provare e di sfogare tutto il dolore e la rabbia che vuole. Ma probabilmente il Fatto sa benissimo che la legge italiana vieta espressamente alle comunità come la Pars di forzare (bloccare) gli ospiti con qualunque mezzo, fisico, psicologico o morale che sia. Ed è curioso, no?, che proprio un giornale come il Fatto quotidiano (dico: il Fatto quotidiano, quello delle manette in prima pagina) rimproveri a qualcuno di non avere infranto la legge.

Ma forse il punto più importante che gli amici del Fatto sembrano non cogliere – un giudizio che Berdini ripete da sempre con altre parole – è che a renderci impotenti contro il dilagare della droga è proprio la mentalità del “qualcuno ce ne liberi”, “qualcuno li blocchi”. Con la liberalizzazione, con i farmaci, con la forza se necessario. Purché non tocchi a me risponderne. Purché non mi costi un impegno. Purché sia gratis. Quando novantanove adulti su cento ragionano così, è facile che la colpa finisca per prendersela proprio l’unico che, giussanianamente, si prende il rischio educativo.

«Ci si chiede ovviamente se si poteva fare di più. Si può sempre migliorare, ma quasi trent’anni di esperienza e le tante persone che abbiamo avuto ed abbiamo in cura con buoni risultati (migliaia i casi trattati, lunghe liste di attesa per l’ingresso) ci dicono che il nostro metodo di lavoro non va cambiato nei punti fondamentali: la proposta di un nuovo stile di vita che si confronta ogni giorno, attraverso educatori, medici e psicologi, con la libertà delle persone che ancora sentono fortemente l’attrazione delle sostanze e che devono imparare a fronteggiare le loro debolezze. La tentazione della fuga per i nostri ospiti, per il tipo di patologia che hanno, è di ogni giorno, ma le tante ragioni per uscire da un passato negativo, l’affetto dei compagni e il sostegno degli operatori, la sapiente cura dei professionisti, riesce quasi sempre, ma non sempre, a vincere questa tentazione. La libertà della persona in comunità non può essere costretta, sono altri i luoghi (carceri, ricoveri coatti…) in cui questo può avvenire; la legge vieta alle comunità ogni tipo di costrizione (fisica, psichica e morale) e i nostri regolamenti illustrano nel dettaglio il modo con cui funziona la comunità e sono firmati per accettazione da ospiti e famiglie, altrimenti anche il nostro sarebbe un carcere e non sarebbe possibile fare nessun passo di cambiamento a queste persone».
Da un post pubblicato su Facebook dalla Pars

Tags: comunità Parsdrogapamela mastropietroparstossicodipendenza
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