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Cara Europa, non aver paura di dirti cristiana

«Pensate che stare insieme significhi rinunciare a qualcosa di sé, ma io vi dico: nella valle della Bekaa sono i musulmani a cercare la nostra comunità». Lettera di un vescovo libanese all'Occidente

Giancarlo Giojelli
08/03/2007 - 0:00
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«Vogliamo dichiarare davanti al mondo l’importanza del Libano, la sua missione storica, compiuta attraverso i secoli: paese di numerose confessioni religiose, il Libano ha mostrato che queste differenti confessioni possono vivere insieme nella pace, nella fraternità e nella collaborazione; ha mostrato che si può rispettare il diritto di ogni uomo alla libertà religiosa».
Giovanni Paolo II Beirut, 11 maggio 1997

di Simon Atallah*
Sono passati dieci anni da quel giorno, quando il Papa volle venire qui in Libano e disse che il nostro paese non era solo uno stato, ma un “messaggio”.
Il Libano è un messaggio per tutto il mondo. Da allora molte volte mi è stato chiesto quale messaggio possiamo dare a voi, fratelli cristiani d’Occidente, soprattutto ora che tra di voi sta crescendo il numero dei musulmani, non solo immigrati. In Italia, come da tempo in Francia, in Gran Bretagna, in Germania e in tutta Europa aumenta il numero degli islamici che sono nati nel vostro paese. Che hanno un passaporto italiano. Che incontrano i vostri figli a scuola, che crescono con i vostri figli, che lavorano e sempre più lavoreranno con voi. Persone che hanno una religione, una fede diversa, con le quali dovete imparare a dialogare, dovete imparare a convivere. Ma si può convivere nella diversità? E soprattutto, la diversità è motivo di scontro? Come si può fare della differenza una ricchezza comune? E parlo della differenza più grande, non solo della razza, della lingua, della cultura. Parlo della differenza della fede, del nome che si dà a Dio.
Il messaggio del Libano è questo: la società deve essere plurale e la convivenza è il fondamento della pace.
Ma come, mi dite, tu che vivi nel Libano parli di pace? Dove è questa pace nel tuo paese? Ebbene, vi rispondo, è qui, proprio qui, dove la guerra ha sconvolto tre generazioni, qui è possibile vedere le vere radici della pace. Quelle radici che il Papa ha indicato così bene. Io sono vescovo della valle della Bekaa, la valle dove un tempo abitavano quarantamila cristiani e ora ne sono rimasti solo diecimila. Molti sono emigrati cercando una vita migliore in Europa, in Africa, in America. Tanti sono morti durante gli anni delle guerre. Questa è la valle dove, a leggere i vostri giornali, più forte è stato lo scontro e dove è cresciuto il fondamentalismo islamico. Ma questa non è la verità, non tutta la verità. Anzi. Proprio qui posso testimoniare che la convivenza non solo è possibile, ma è l’unica – l’unica – strada per la pace. Non è una parola scontata, la convivenza. Perché bisogna considerare su cosa si basa, su cosa si fonda. Come si costruisce e cosa la sostiene. Vivere insieme, genti di fede diversa, in un mondo dove tanti dicono che il fondamentalismo e la religione sono motivo di odio e di guerra. Dove tanti credono che il modo per star insieme sia rinunciare a qualcosa di sé, soprattutto in materia di fede, di religione. Dimostrare come questo sia non solo possibile ma necessario. Questo è il nostro messaggio.
Ecco un esempio concretissimo: qui a Baalbeck, la capitale della Bekaa, c’è la scuola della nostra diocesi e moltissimi dei 500 allievi vengono da famiglie musulmane. Sono gli islamici a chiedere che i loro figli vengano ammessi alla nostra scuola. Chiedono di parlare con me, mi spiegano i motivi. Cosa cercano? Non solo una migliore istruzione. Non solo un ambiente serio e rispettoso della persona. Cercano noi, i cristiani. Nella nostra scuola si insegna religione cristiana e religione musulmana, ci sono insegnanti cristiani e insegnanti islamici. Questo è il primo punto educativo. Ogni allievo è aiutato ad andare al fondo della sua fede, a conoscere le sue radici. Perché approfondendo la propria fede possa trovare e riconoscere la verità. Non abbiamo paura delle nostre identità. I musulmani vedono in noi valori umani che riconoscono buoni e veri per tutti.
Noi “battezziamo” quei valori, con la nostra presenza. Diamo un corpo a quei valori. Non sono concetti astratti.

Che futuro ha una società atea?
Noi siamo responsabili di questa testimonianza, e lo siamo fisicamente non intellettualmente. Lo siamo attraverso il fatto di esserci. Di essere qui. Per questo dico ai cristiani che non devono andare via, nonostante la mancanza di scuole, di ospedali, di lavoro. È vero: è una condizione di sacrificio quella a cui siamo stati chiamati, ma è la condizione perché si realizzi il vero dialogo, che è l’incontro tra due presenze.
Mi hanno detto che in occasione del Natale da voi, come in altri paesi europei ci sono stati alcuni negozianti che non hanno voluto esporre insegne o segni religiosi cristiani per non turbare i musulmani. Che negli asili ci sono state maestre che non hanno voluto o saputo spiegare il significato del Natale, che vuol dire nascita, nascita di Cristo, perché avevano tra gli alunni piccoli islamici. Vi dico che non ha senso. È paradossale: gli islamici qui hanno festeggiato il Natale con noi. Nessuno si è sognato di nascondere la nascita di Cristo per non offendere l’altro, che invece ha gioito con noi.
L’idea di nascondere la propria fede per non offendere l’altro non costruisce nulla, anzi distrugge, distrugge la persona e distrugge l’intera società. Che senso e che futuro ha una società di atei e miscredenti? L’uomo non può vivere senza religione, senza qualcosa che lo leghi al significato dell’esistenza. La parola stessa, religione, nasce dalla radice che indica un legame. Un legame con il Destino dell’uomo. Un legame con la felicità. È un bisogno innato. Senza questo legame con il senso ultimo della vita la persona stessa si disperde.
Una società senza religione è una società senza legami: è una società slegata. È una società dove l’uomo è diviso in sé stesso e dove gli uomini non hanno legami che li uniscono, dove gli uomini sono solo individui, quindi sono soli. Non sono un popolo.
E l’uomo da solo perde la libertà, la confonde con il libertinismo che tutto rende relativo e non costruisce nulla. L’uomo da solo non ha riferimenti, la sua libertà non si àncora a nulla. E non c’è spazio per il dialogo, perché non c’è più nessuno con cui dialogare veramente. La religione invece lega. Non sto parlando solo del cristianesimo, ma di ogni religione che crea un legame con Dio. Il legame che fonda l’uomo.

Non privateli della vostra Presenza
Se non comprendiamo questo cadiamo o nell’ateismo, che genera solitudine e perdita della libertà anche se ci si sente slegati e quindi apparentemente più indipendenti, o nell’estremismo, che genera violenza. È un pericolo per noi cristiani come per i musulmani. Non cadiamo da soli nell’isolamento. È questa la radice dell’estremismo violento. L’isolamento per cui non si vede l’altro.
Non abbiate paura: non costringete i musulmani a vivere da soli facendo mancare la nostra Presenza. Considerate questo: siamo chiamati a stare di fronte all’altro. Rinunciare alla nostra presenza, a dar corpo alla Presenza di Cristo, sarebbe come una punizione per noi e per gli altri: perché dobbiamo punire i musulmani rinunciando ad essere noi stessi?
*arcivescovo di Baalbek-Deir el Ahmar
(testo raccolto da Giancarlo Giojelli)

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