Il capitalismo è un puzzle

Di Carlo Marsonet
15 Maggio 2023
Nel suo nuovo libro Alberto Mingardi racconta la storia dell'economia di mercato sotto un'altra luce, smontando il pregiudizio razionalista moderno che l'ha resa ideologia. Recensione
Mingardi capitalismo

Mingardi capitalismo

«È una parola sbagliata. Pensata sbagliata, costruita sbagliata. Ma anche molto fortunata, e il perché si capisce». Si apre così Capitalismo di Alberto Mingardi (Il Mulino, 2023, collana “parole controtempo”). I corsivi sono dell’autore – professore associato in Storia del pensiero politico presso l’Università IULM di Milano e collaboratore di Tempi – e non sono casuali. Anzi: spiegano in maniera esemplare il pregiudizio razionalistico posto alla base di un fenomeno che non dipende da un progetto intenzionale, ma è il frutto di un intreccio di azioni individuali e del caso.

Non è un sistema ideato a tavolino

A differenza di un sistema ideato a tavolino, nota Mingardi, il capitalismo, o, se si preferisce, l’economia di mercato, è piuttosto l’esito di una serie di condizioni emerse spontaneamente che hanno dato vita a un modo di produrre e consumare molto più libero e più prospero di quelli precedenti. Per non dire, peraltro, dell’eguaglianza di consumi che esso crea: quelli che un tempo erano lussi esclusivi per élites, oggi possono essere a disposizione delle persone qualunque. Come notava l’economista austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950), «il meccanismo produttivo capitalistico» crea una generale condizione egualitaria nel poter godere di alcuni beni un tempo inimmaginabile. E che nessun potere accentrato ha mai potuto determinare (se non nel rendere tutti più poveri, come i vari esperimenti comunisti dimostrano).

Se prima della Rivoluzione industriale, infatti, vi erano sempre stati pochi a possedere capitale (un faraone, un sovrano, l’aristocrazia), con lo sviluppo industriale si aprono le porte, per chi innova, sperimenta e dimostra di possedere e mettere a frutto il dono dello spirito imprenditoriale, per arricchirsi. Il «Grande arricchimento», di cui parla la storica dell’economia Deirdre McCloskey, non è altro che un cambiamento, soprattutto di natura culturale, che vede maturare uno sguardo favorevole nei confronti della possibilità di migliorare la propria condizione, rispetto a una precedente idea di assoluta stasi e immodificabile ripetitività del mondo.

Il capitalismo è un puzzle

In tal senso, il termine capitalismo non può essere considerato un’ideologia: quest’ultima rinvia a una più o meno coerente dottrina onnicomprensiva, un «pacchetto completo», per dirla con il teorico politico australiano Kenneth Minogue (1930-2013), che serve a spiegare il mondo (semplificandolo e volgarizzandolo) e a dirigere così la propria vita sulla base del senso che essa dona. L’uomo è una creatura alla perenne ricerca di senso. Ma questo non può pervenirgli da un meccanismo di produzione e consumo: esso lascia la libertà di scelta alle persone in merito alla direzione che ciascuno vuole perseguire. Non gli si può chiedere ciò che non è costitutivamente in grado di dare: certezze, senso, orientamento. Questo appartiene a una sfera diversa, ma che, in realtà, una certa tendenza moderna, orfana del trascendente, ha cercato di portare nel mondo degli uomini, provando a costruire modelli che riportassero certezza nella vita terrena.

È così che si viene a determinare quella presunzione razionalistica che ha invaso un po’ tutte le visioni politiche. Il filosofo politico britannico Michael Oakeshott (1901-1990) di ciò ha diffusamente parlato, asserendo che il Razionalismo ha promosso un’idea di «politica della fede» volta a imporre «un’uniforme condizione di perfezione sulla condotta umana». Secondo una tale impostazione, basta seguire pedissequamente una tecnica, dei precetti, e uno schema ingegneristico per creare ricchezza, prosperità e quant’altro (il capitalismo si fa ipostasi). Al contrario, un processo libero di mercato è un puzzle, scrive Mingardi, di cui nessuna “super-mente” può ritenere di avere la chiave: il segreto risiede nell’estrema frammentazione delle conoscenze pratiche di tempo e di luogo, come scrisse Friedrich von Hayek (1899-1992), che servono ai singoli operatori economici per determinare cosa, come e quanto produrre. E questo, per nostra fortuna, depone a favore della nostra libertà.

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