I cittadini britannici potrebbero presto essere richiamati alle urne, nella speranza che il voto risolva l’ennesima impasse causata dalla Brexit. Ieri il premier Boris Johnson, succeduto alla dimissionaria Theresa May, ha perso la risicata maggioranza di un seggio su cui si reggeva il suo governo, dopo il passaggio ai liberal-democratici del deputato conservatore Phillip Lee. Salvo sorprese, già stasera potrebbe essere approvato un provvedimento che chiede il rinvio di tre mesi della Brexit. Senza rinvio, il divorzio dall’Ue si consumerà il 31 ottobre e il primo ministro, con una mossa bollata come «attentato alla Costituzione» dall’opposizione, aveva ottenuto dalla regina la chiusura del Parlamento fino a metà ottobre, nella speranza di fiaccare ogni opposizione all’uscita dall’Unione Europea, anche a costo di far prendere forma al temuto “no deal”. Davanti a questa intricata situazione, è molto probabile che domani Johnson chieda lo scioglimento del Parlamento. Per ottenerlo serve il voto dei due terzi dell’Aula, ma anche i laburisti sembrano d’accordo.
IL PARLAMENTO DECIDA
I giornali britannici e non continuano a dare voce all’opposizione e ai membri ribelli del partito Tory, secondo i quali l’atteggiamento di Boris Johnson di puntare a tutti i costi a una Brexit purché sia è aggressivo e incostituzionale. Ma a Westminster dovrebbero innanzitutto fare pace con se stessi e con il popolo britannico.
Sono passati oltre tre anni da quando gli elettori hanno votato la Brexit. Il fronte del “Leave” ha vinto il referendum del 23 giugno 2016, indetto dall’allora premier David Cameron, con il 51,9 per cento dei voti. Una maggioranza che, per quanto risicata, rimane tale. I sondaggi confermano che a distanza di anni, la popolazione continua a volere l’uscita dall’Unione Europea.
«WESTMINSTER HA FALLITO DA TEMPO»
In questi anni, il Parlamento si è dimostrato debole e indeciso, rifiutando ogni possibile soluzione. Come ricordato in una recente intervista al Figaro da uno dei più eminenti costituzionalisti britannici, Vernon Bogdanor, professore al King’s College di Londra,
«la Camera dei Comuni si è opposta al “no deal”, si è opposta al “Deal”, si è opposta a un nuovo referendum, si è opposta all’unione doganale, si è opposta al mercato interno… Si è opposta a molte cose senza fare proposte alternative. Nel momento in cui si vota l’articolo 50, dopo aver rifiutato il solo accordo disponibile (quello trattato da Theresa May, ndr), allora una Brexit senza accordo diventa l’unica soluzione. Il Parlamento aveva il controllo. Ha avuto la possibilità di pronunciarsi su tutta una serie di voti indicativi, ma ha respinto tutte le opzioni. I parlamentari si lamentano che vogliono rubargli qualche giorno di sessione, ma in tre anni non sono stati capaci di arrivare a niente. È da tempo che il Parlamento ha fallito».
IL PROBLEMA NON È BORIS JOHNSON
Come ben sottolineato da Bogdanor, il problema non è Boris Johnson, le sue azioni, per quanto spregiudicate, o la sua arroganza. Il problema è che la Brexit è stata votata dalla popolazione, su proposta della politica, e che l’uscita dall’Unione Europea non potrà mai essere scevra di conseguenze. Delle due l’una: o il Parlamento rispetta la democrazia e comincia a costruire il futuro del paese fuori dall’Ue, affrontando tutte le difficoltà del caso, oppure la rinnega con il devastante danno d’immagine e con la perdita di credibilità che ne conseguono. La via di mezza fatta di rinvii, piagnucolii e lamentele assortite non è più tollerabile come soluzione.
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