«Boicottiamo i Redskins, nome razzista». Il politically correct non conosce la storia

Di Emmanuele Michela
18 Novembre 2013
Nel dibattito sul nome della squadra di Washington si alza la voce di Ray Halbritter, rappresentante della tribù Oneida. E c'è chi vuole cambiare il logo in una patata a buccia rossa

Finiti gli appelli sul giornale, ora si passa al boicottaggio. La polemica sul nickname dei Washington Redskins, considerato razzista da alcuni nativi americani col supporto di diverse firme della stampa Usa, ripiomba con fragore sui giornali, con la proposta di ostacolare la Federal Express, il cui presidente, Fred Smith, è co-proprietario della franchigia di football della capitale. E il merito è tutto di Ray Halbritter, nativo rappresentante della tribù Oneida, un passato da metalmeccanico poi la laurea ad Harvard, e ora proprietario di un grosso casinò nello stato di New York gestito dai pellerossa del suo gruppo etnico.
Nei giorni scorsi ha lanciato la sua proposta dalle pagine del Washington Post contro il soprannome discriminante del club, parlando diretto alla squadra e alla Nfl: è possibile che negli Stati Uniti del 2013, si chiede, esistano squadre con appellativi simili? Se danno fastidio nomi ipotetici come “Washington Jews” (ebrei) o “Washington Chinamen” (cinesi), perché tutto ci si indigna di fronte al nome “Pellerossa”?

L’INCONTRO CON OBAMA. Poco importa se in realtà quell’appellativo non è stato affibbiato alla squadra di football con intento denigratorio, bensì, al contrario, proprio per rifarsi alle virtù eroiche dei pellerossa e incensare l’animo battagliero delle tribù dei nativi, sin dalle origini della franchigia, anni Trenta del secolo scorso. È quello che anche il proprietario della squadra David Synder continua a spiegare, supportato dalla stragrande maggioranza dei tifosi di Washington, che di ribattezzare la loro fede sportiva proprio non ne vogliono sapere: dietro non c’è discriminazione, ma una storia, sostengono. I tifosi e gli amanti del football americano stanno in maniera decisa dalla parte del club, eppure le parole di Halbritter non sono cadute nel vuoto, rimbalzando sui giornali dopo che, qualche giorno fa, il nativo aveva incontrato il presidente Barack Obama e lo aveva ringraziato proprio per essersi schierato dalla parte degli indiani sul tema. Per l’occasione, Halbritter indossava una maglia di una high school di Coopertown, famosa per aver cambiato il nome della sua squadra di football: anche loro erano i “Redskins”, ma pochi mesi fa hanno optato per il più politically correct “Hawkeyes”.

REDSKINS? LE PATATE. Scelta che invece a Washington nessuno intende fare, sebbene il ciclone sul nome con frequenza torni a investire la squadra, che dalla sua ha pure una causa vinta nel ’92 al tribunale statunitense dei marchi registrati, intentata da Suzan Harjo, avvocata dei diritti dei nativi. Negli ultimi mesi il turbinìo è ricominciato: alcuni giornali hanno promesso di non usare più quel “racist slur” nei loro articoli quando parlano del club, sono stati ideati pure spot pubblicitari che invitano al “politically correct” da trasmettere durante le dirette dei match di football, e anche il presidente Obama ha voluto dire la sua: «Se io fossi il proprietario di una squadra e sapessi che il suo nome, sebbene abbia una storia solida, offende un determinato gruppo di persone, allora penserei di cambiarlo». Ma da Washington e dalla Nfl nessuno intende farsi smuovere. Nemmeno di fronte alla proposta sicuramente più originale, quella arrivata dalla Peta, organizzazione che difende gli animali: non cambiate il nome della squadra, bensì lo stemma. Non più un pellerossa, ma una patata, andando a giocare sul doppio significato della parola “redskin”, usata anche per i tuberi a buccia rossa. «Quando dici pellerossa a cosa pensi? Alle patate, ovvio. Anche loro sono native americane».

@LeleMichela

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1 commento

  1. beppe

    benissimo, però adesso impediamo di usare la parola CHRISTMAS a chi vuole abolire il natale

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