Bobby l’eletto
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«Sto ancora aspettando, come chiunque altro,
una figura politica veramente grande».
(Andy Warhol)
«Perché poi tanta emozione?». Nell’agosto del 2009, In occasione della scomparsa del senatore Ted Kennedy, Bernard-Henry Lévy – in un articolo intitolato “Quei tragici fratelli, eroi greci in America” – s’interrogava sul contraccolpo emotivo che ogni lutto della famiglia Kennedy generasse nel popolo statunitense. Parlando di Ted, Lévy evidenziava che né le qualità della persona né il valore dell’uomo politico potevano da sole spiegare lo sgomento diffuso tra gli americani all’annuncio della sua morte. Né, soprattutto, erano sufficienti a motivare il modo in cui gli stessi americani avessero volontariamente censurato i classici “lati oscuri” degli ultimi anni di vita pubblica del personaggio. «E come ogni volta con i Kennedy, come ogni volta che il destino colpisce questa famiglia unica e al tempo stesso ordinaria, leggendaria e perfettamente banale, si è costretti a interrogarsi sulla bizzarria, sull’enigma, sul dispositivo emotivo raro, addirittura unico che è legato a questo nome».
Il funzionamento di questo dispositivo, che Lévy metteva al centro della sua riflessione, sancisce e di fatto celebra la sopravvivenza dell’immaginario a tutti i tentativi di demistificazione e di smascheramento cui è sottoposto. Lévy spiegava questo passaggio sostenendo che «le immagini sono dei cliché» e che la successione di quelle della vita di Ted Kennedy, che vengono riproposte all’indomani della sua scomparsa, costituiscono «un film visto e rivisto, dove non appare mai la minima indicazione inedita o sorprendente» e che per questo, proprio per la sua reiterazione e prevedibilità, costituiva una «ripetizione tragica».
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From Washington to the moon
Introducendo il concetto di “tragico”, Lévy si riferiva non solo alla vicenda familiare dei Kennedy ma anche alle modalità di fruizione e alla percezione emotiva che il popolo americano avesse della vicenda stessa. Dalla “tragedia” si risale dunque al “mito”. Un mito, quello dei Kennedy, costituito in parte da «una rappresentazione pubblicitaria e fabbricata», una «grande menzogna mediatizzata» che pure non tramonta né si lascia oscurare da decenni di cadute, scandali, sconcertanti rivelazioni: «Malgrado la quantità di informazioni a disposizione di chiunque, malgrado quel lato nascosto che per forza di cose non è più nascosto per nessuno […], malgrado il disincanto metodico di cui il mito Kennedy è stato oggetto da quarant’anni, basta un’immagine». È sufficiente questo, dunque – proseguiva Lévy passando in rassegna i tratti iconici e le parole d’ordine della mitologia Kennedy fatta di giovani principi sorridenti e affascinanti, «American tabloid, from Washington to the moon, opulenza, felicità, nuova frontiera, spensieratezza» –, basta una sola di queste figure per essere presi da un turbamento che in quella ripetitività, in quella reiterazione, non trova pace ma si gonfia con il passare del tempo.
«Cos’è, allora, un cliché che fa piangere? Cos’è un mito al quale non si crede più e che, tuttavia funziona sempre? […]. È la domanda che si pongono gli amanti dell’antichità quando si chiedono se i Greci “credessero ai loro miti” e rispondono, come André Gide, che il problema è di assentire, più che di credere. Il fatto è che, nei grandi sentimenti semplici che la saga dei Kennedy mobilita […], nella prossimità di sofferenza e amore, nella connessione di potere e disgrazia, di caduta e redenzione, nel romanzo vero di una famiglia illustre e maledetta, benedetta dagli dei e perseguitata da un destino inconcepibile e al contempo necessario, è tutto il Tragico eterno – “terrore e pietà” diceva Aristotele – che è rappresentato e che ci fa fremere. I Kennedy non sono, come talvolta si dice, l’equivalente di una famiglia reale americana. Sono, nel destino, fratelli di Edipo, Achille, Teseo, Narciso o Prometeo. Sono la parte tragica di un popolo che pensava di essersi risparmiato la tragedia di una felicità quantificabile, quantificata e quindi accessibile a ciascuno. Sono i Greci degli americani».
La ripetitività tragica del destino
Questa conclusione spiega bene alcune inquietudini, spesso inespresse, della cultura nordamericana (che ogni tanto nel cinema e nella serialità televisiva prendono forme compiute) quando al racconto della politica si affianca o si sottende quello dell’epica e si attinge proprio al reale per costruire una mitologia (cui “assentire è più importante che credere”) fatta da immagini e da “cliché che fanno piangere”. Emblematica, in questi termini, fu la campagna per le primarie del Partito democratico del 1968 che vide candidato Robert Francis Kennedy (meglio noto come Robert Kennedy, Bob Kennedy o semplicemente Bobby), protagonista formidabile di una temperie socioculturale per certi versi irripetibile. Ancora più che la campagna elettorale di alcuni anni prima conclusasi con l’elezione a presidente degli Stati Uniti del fratello JFK (che per la sua eccezionalità e novità già costrinse a ripensare da allora in avanti le battaglie politiche, modificandone le strategie comunicative), la campagna elettorale di Bob Kennedy fu in qualche modo unica perché – oltre a dover gestire un’eredità (quella del presidente assassinato a Dallas) non solo politica ma anche di immaginario condiviso – contribuì, suo malgrado, a nutrire quello stesso immaginario, soprattutto grazie alla “ripetitività tragica” che accomunò i due fratelli nel destino di soccombere entrambi alla violenza di un attentato omicida.
Se l’assassinio di JFK interruppe una parabola politica giunta già all’apice (la presidenza, sia pure con le sue contraddizioni), quello di Bob infranse un sogno nel preciso momento in cui esso sembrava potersi realizzare. Solo dopo la vittoria nelle primarie in California, infatti, si concretizzarono seriamente le sue ambizioni di ottenere la nomination dei democratici e quindi di concorrere alla presidenza. La sera stessa della vittoria californiana, nel corso del festeggiamento all’Hotel Ambassador di Los Angeles, il palestinese Sirhan Bishara Sirhan sparò diversi colpi di arma da fuoco che tolsero la vita al candidato. La tragedia si ripeté, “come un film già visto” (per usare le parole di Bernard-Henry Lévy), con l’ineluttabilità che incombe sui protagonisti del mito classico. Come Edipo, appunto, come Orfeo o Prometeo, Bob Kennedy andò incontro alla sorte con inquietante precisione e il pubblico americano, come quello dei Greci a teatro, assistette allo spettacolo consumando in diretta un rito di massa.
Il cerchio ferito
La sostanza drammaturgica e rituale della scena politica (e degli imprevisti del suo palcoscenico) e la sua estrema spettacolarizzazione mediale sembrano non solo concorrere al vincolo di “predestinazione” cui Bob Kennedy fu sottoposto ma anche partecipare di una grammatica tutta americana legata al concetto di “cerchio ferito”, immagine usata da Francesco Dragosei in un fortunato saggio scritto dopo l’attentato al World Trade Center e intitolato Lo squalo e il grattacielo (2002). Nel libro erano catalogati «miti e fantasmi dell’immaginario americano»: si arrivava all’11 settembre 2001 ma il punto di partenza era stato l’Act of Uniformity del 1559, con cui la regina Elisabetta dichiarava perseguibili tutti i sudditi inglesi che non si fossero uniformati alla nuova chiesa di Stato, la Church of England. La prima conseguenza del provvedimento fu che gruppi di puritani, perseguitati dalla nuova legge, cominciarono ad abbandonare la madrepatria per fuggire nel nuovo continente (Dragosei cita Tocqueville secondo cui «l’intero destino dell’America è contenuto nel primo puritano che sbarcò in America»).
Il cerchio ferito corrisponde all’immagine di un cerchio verso il cui interno si rivolge una freccia e verso il cui esterno se ne rivolge un’altra opposta e che «potrebbe essere lo schema complessivo, il riassunto, il diagramma, il compendio perpetuo di gran parte […] della storia, della politica, delle guerre, del pensiero, della cultura, dell’arte, dell’immaginazione americana». L’orrore di uno spazio vuoto che lo circonda potrebbe determinare un continuo movimento di andata e ritorno da e verso questo cerchio. Dragosei individuava, nella storia del XX secolo, sei grandi configurazioni di questo senso di minaccia (azioni e successive reazioni) penetrate ormai così tanto nel dna della società statunitense da diventare riferimenti irrinunciabili delle sue successive rappresentazioni simboliche. Si tratta, nell’ordine, dell’attacco a Pearl Harbour (e nel conseguente inferno di Hiroshima); della minaccia nucleare degli anni della guerra fredda; della minaccia dell’infiltrazione comunista; della psicosi del complotto portato al cuore del cerchio con l’omicidio di JFK; della partita a domino del Vietnam e infine della «sindrome del risarcimento dei cerchi concentrici» che conduce fino all’abbattimento delle Twin Towers di New York, a sua volta innesco di una escalation cruenta, e dell’apparecchiamento di un nuovo set in cui la continua minaccia jihadista svolge un ruolo di primo piano nel ferire il cerchio.
La parabola politica di Robert Kennedy, la sua figura esemplare di candidato (esemplare per vari motivi, tra cui quello di toccare tutte e sei le configurazioni) emerge da una nuova visione di due film della prima decade del secolo, Bobby (2006), scritto e diretto dal figlio e fratello d’arte Emilio Estevez, e Thirteen Days (2000), diretto da Roger Donaldson e scritto da David Self, sulla base del libro The Kennedy Tapes – Inside the White House during the Cuban Missile Crisis di Ernest R. May e Philip D. Zelikow.
Il mosaico in frantumi
Emilio Estevez aveva 6 anni la notte in cui Robert Kennedy fu assassinato, ma ricorda benissimo quando, appresa la notizia alla tv, corse al piano di sopra a svegliare i suoi genitori che dormivano, per avvertirli immediatamente. Quando si trasferirono da New York a Los Angeles – raccontava il regista a Time durante la promozione del film – suo padre, come prima cosa, portò la famiglia a visitare l’Ambassador Hotel: «Ci fece attraversare la hall e la sala da ballo e poi ci mostrò il luogo esatto dell’omicidio. “Ecco”, ci disse, “questo è il posto dove la musica si è fermata”». Certo non è un caso che il padre di Emilio Estevez, l’attore Martin Sheen (nome d’arte di Ramon Antonio Gerard Estevez), abbia interpretato proprio il ruolo di Robert Kennedy nel Tv-Drama della ABC The Missiles of October (1974), quello di John F. Kennedy nella miniserie della NBC Kennedy (1983) e sia stato poi il narratore – non accreditato – di JFK-Un caso ancora aperto di Oliver Stone (1991), prima di ricoprire il ruolo dell’iconico presidente Bartlet nelle sette stagioni della serie West Wing dal 1999 al 2006. Bobby, che uscì nelle sale americane nel novembre del 2006, racconta le vicende di una ventina di personaggi, dipendenti o clienti dell’Ambassador Hotel, lungo l’intera giornata del 4 giugno 1968 e si conclude amaramente proprio con lo sgomento dei primi minuti successivi all’attentato omicida.
«La morte di Bobby Kennedy coincise con la morte della moralità in America, la morte dello stile e delle buone maniere, la morte dei sogni e della speranza. I politici oggi non parlano più con il cuore. Sono costruiti a tavolino in un modo che il pubblico può intuire. Il film serve a ricordare che c’è stato un tempo in cui i nostri leader erano affidabili e non erano portavoce di interessi particolari». Estevez parlava due anni prima della vittoria di Barack Obama. Il suo entusiasmo, nell’evocare la figura del politico assassinato, potrebbe far pensare a una idealizzazione, ma solo a patto di considerare idealizzate le figure di Icaro, Edipo e Orfeto.
Risuscitare i morti
In patria furono apprezzati del film, più che la fattura tecnico-artistica, proprio le intenzioni e il contenuto. Si può non essere d’accordo con un mito classico? Anche i detrattori non mancarono di farsi catturare, per l’ennesima volta, dal fascino e dal carisma dei Kennedy. Soprattutto perché Estevez usò massicciamente immagini e brani di repertorio, stralci dei comizi di Bobby e dei suoi interventi televisivi, tanto da far dire a Sophie Mayer di Sight and Sound che le ultime scene del film – con le parole ancora vive del candidato a commentare le immagini finali – «ricordano con forza l’abilità della tecnologia di risuscitare i morti». Così proprio nel finale, a morte di Kennedy già avvenuta, le immagini di repertorio paradossalmente lo resuscitano, mentre l’audio scandisce i punti del suo programma politico. La “ripetizione tragica”, in questo caso, non si fa testimonianza del passato ma di un possibile futuro, dicendoci quello che avrebbe potuto essere ed estendendo al di fuori della memoria degli spettatori – in un certo senso fuori dal tempo – la condizione di “candidato ideale” dell’uomo che viene celebrato. Cristallizzandosi, cioè, non in una promessa disattesa ma in quella ancora da compiersi: un predestinato, un “prescelto” (secondo una terminologia non più elettorale ma ormai tutta messianica, che grande fortuna avrà proprio nel cinema di fine millennio) cui solo il carattere immanente della politica impedisce la perfezione del martire.
Resuscitandolo ad ogni morte, attraverso le sue stesse parole, il film di Estevez, inquadra la figura di Bob Kennedy come quella di un candidato perenne, lontano sia dalla beffa della sconfitta sia dall’ebbrezza della vittoria, sospeso tra la potenza e l’atto in una condizione di limbo permessa dall’emotività di una Nazione a cui “basta un’immagine”. Il cinema può, quell’immagine, prima registrarla e poi riprodurla: è il motivo per cui ogni narrazione cinematografica che si rispetti consente allo spettatore sempre un guadagno emotivo e cognitivo, anche se (anzi, soprattutto se) il film è visto e rivisto. Ed è anche il motivo, tornando al caso specifico, per cui mentre chiunque conosce lo svolgimento dell’omicidio di JFK, nessuno ha in mente quello dell’omicidio di Abraham Lincoln (di cui però tutti conoscono il cipiglio perché l’hanno visto – magari proprio al cinema o in televisione – scolpito nell’effigie del Lincoln Memorial e del Monte Rushmore).
Anche l’assassinio di Lincoln fu epocale e spettacolare (avvenne in un teatro) ma i mezzi di comunicazione di massa, che avrebbero potuto donargli l’immortalità proverbiale di cui godono le icone della modernità, erano di là da venire. Lo scarto è quello di una registrazione audiovisiva, che nella sua possibilità di essere riproposta assurge a pratica rituale: «La ripetizione infinita dei fotogrammi del presidente ferito a morte da un assalitore invisibile, la scansione solenne dello slow motion fanno della sequenza una delle più saturanti “liturgie” della storia dell’immaginario americano, ricelebrata con ossessiva capillarità sui milioni di piccoli altari catodici installati nelle case della nazione» (Dragosei). Con questa prassi, è impossibile non iscrivere anche la parabola di Robert Kennedy, conclusasi con il suo assassinio, all’interno di questo tipo di consumo rallentato, frammentato e, grazie anche al cinema, ricelebrato. Vale la pena senz’altro notare, a questo proposito, come le parole per descrivere la pratica di consumo del filmato dell’omicidio di JFK possano essere applicate perfettamente anche alle immagini dell’attacco dell’11 settembre 2001 e a quelle di qualunque altro trauma di tipo “mediale”. Sono gli strumenti della comunicazione che cambiamo gli strumenti della politica. Sono i film che diventano nuovi miti.
Un omicidio in diretta
Ma per quale pubblico si svolge e si (ri)celebra il Bobby di Estevez? O meglio, di quale pubblico parla, quale collettività raduna attorno alla figura carismatica e tragica dell’eroe del titolo? I protagonisti del film, tra cui un portiere d’albergo vicino alla pensione, un cuoco vittima del razzismo del suo capo, una ragazza che sposa un giovane con il solo motivo di salvarlo dalla guerra in Vietnam, e così via, rappresentano tutti i destinatari del progetto politico del candidato, in particolare coloro che avrebbero tratto beneficio dai movimenti per i diritti che egli sosteneva. «Le storie che vi si intersecano – scrisse David Denby sul New Yorker – hanno lo scopo di suggerire la gamma di personaggi tipici americani, rozzi o sofisticati che fossero, e i sentimenti diffusi di orgoglio, paura e idealismo che Bobby Kennedy, così bravo a capire la discordia all’interno del Paese nel 1968, avrebbe potuto riconciliare e armonizzare in una campagna presidenziale. Il film dice: “Era tutti noi; avrebbe potuto unirci”».
Nel saggio Gli anni ’60 al capolinea, pubblicato su Cineforum Luca Malavasi notò che nel montaggio alternato del film era inscritta la politica stessa di Kennedy: «La convergenza del molteplice, del distante se non del diverso, l’unione del disparato, l’unità delle parti». Secondo il critico Eugenio Renzi, dei Cahiers du cinéma, non esiste un’immagine migliore per un uomo politico che quella di identificarsi con il suo popolo, e il contributo del film sta nell’aver decostruito Robert Kennedy in una piccola folla, «un avatar collettivo». Il modello narrativo usato è quello che nei manuali di sceneggiatura si chiama “multitrama”: tante storie che viaggiano in parallelo il cui collante, in questo caso, è proprio la figura del candidato, specchio di un “protagonista multiplo”. Modello non dichiarato ma inequivocabile di Estevez furono i film a “multitrama” di Robert Altman, soprattutto quel Nashville (1975) che metteva in scena la campagna elettorale di un candidato alla presidenza (in quel caso fittizio) e si concludeva con un attentato omicida ai danni di una popolare cantante country, per cui uno dei personaggi – nel finale – si ribella e dice: «Questa non è Dallas. Questa è Nashville. Non possono farci questo a Nashville».
Anche se il film non parla direttamente di lui, quindi, è comunque Robert Kennedy – come scrisse Roberto Escobar nell’articolo L’America che non fu – «il protagonista atteso e assente del film; un protagonista che racconta la memoria di un Paese, e la sua nostalgia». La sparatoria venne registrata in audio e in video, da giornalisti della radio, reporter della carta stampata e telecamere delle televisioni e, dal momento che erano in tanti a stargli intorno quando fu colpito, le testimonianze, le fotografie e le sequenze filmate sono numerose. Ecco perché il dispositivo emotivo messo in moto dal finale di Bobby è infallibile: alle immagini concitate della violenza e del tentativo di metter ordine nel caos, si sovrappone la voce modulata e l’oratoria abile del candidato. Come i greci a teatro, gli americani assistettero a un nuovo omicidio in diretta, tanto più lacerante perché alle parole di quell’uomo che si spegneva – frantumando con lui anche il mosaico delle loro vite – avevano deciso, più che assentire, di credere.
L’arena del predestinato: Thirteen Days
La parabola politica di Robert Kennedy è indissolubilmente legata, naturalmente, alla figura del fratello maggiore JFK, di cui Robert fu uno dei più stretti collaboratori, ricoprendo durante la presidenza l’incarico di ministro della Giustizia. «Quando Jack Kennedy aveva bisogno di stare solo in una stanza con un uomo – riporta il giornalista Penn Kimball nel libro Bobby Kennedy and the New Politics (1968) – quell’uomo era Bobby. Non era soltanto il numero Due del presidente. Bobby era il numero Uno e mezzo». Questo rapporto è reso in maniera molto efficace in alcuni passaggi del film Thirteen Days, dettagliato resoconto dei tredici giorni della crisi dei missili sovietici a Cuba che nell’ottobre 1962 tennero il mondo con il fiato sospeso. Come in Bobby, anche qui la veridicità storica è ricercata attraverso il ricorso a materiale di repertorio, rappresentato da frequenti inserti di autentici documentari d’epoca. Il regista passa dal bianco e nero delle sequenze iniziali al colore, come per attualizzare la vicenda solo dopo averla storicizzata e ricollocata nella memoria degli spettatori.
In Thirteen Days Robert Kennedy appare, con discrezione, non nel ruolo di protagonista ma in quello di alleato dell’eroe (in questo caso l’eroe è proprio JFK). La sceneggiatura lavora sul confronto acceso e drammatico tra la politica dell’amministrazione Kennedy e lo spirito guerrafondaio dell’establishment militare che spingeva a un confronto aperto con l’Unione Sovietica. Un ruolo cruciale, nell’assistere JFK, lo ebbero il consigliere Kenny O’Donnell (interpretato nel film da Kevin Costner), che spinse per una soluzione diplomatica e sfruttò il potere crescente della televisione per consegnare le parole del presidente nelle case degli americani, e lo stesso Bob, che convinse gli uomini dello studio ovale a evitare un attacco a sorpresa su Cuba, paragonando questa eventualità – come racconta Thurston Clarke in The Last Campaign (2008) – a una «Pearl Harbour causata dagli Stati Uniti».
Con il riferimento a Pearl Harbour, i tredici giorni evocati dal film potrebbero assurgere a metafora dell’intera battaglia dell’America del “cerchio ferito”. Posizionando Robert Kennedy al centro di quest’arena, al crocevia tra il periodo della presidenza Kennedy e i decenni che seguiranno, possiamo ripartire le sei grandi configurazioni di cui parla Lo squalo e il grattacielo di Dragosei, in quelle a cui Bobby sopravvisse (la minaccia atomica e il pericolo comunista), quelle di cui fu protagonista (l’omicidio di JFK e la guerra del Vietnam, che in campagna elettorale promise di interrompere), e quelle dell’immaginario evocate per scongiurare i venti di guerra (Pearl Harbour). Resta l’ultima configurazione, quella del risentimento e della paura, che spinge l’America e il suo immaginario fino e oltre l’11 settembre 2001. Non è un caso se l’uscita nei cinema di Thirteen Days, che racconta di un successo politico brillante ottenuto in un momento di grande tensione, abbia anticipato di pochi mesi l’attacco alle Twin Towers (a posteriori, quasi un fallito rito scaramantico nei confronti di un vaso di Pandora pronto a essere scoperchiato) e che invece Bobby sia stato presentato alla Mostra del cinema di Venezia lo stesso anno di World Trade Center (2006) di Oliver Stone, il primo tentativo di Hollywood di elaborare, attraverso un film, il lutto della più spaventosa tragedia consumatasi all’interno del cerchio ferito americano.
«A Bob. Quando avrò finito io, perché non incominci tu?»
La compresenza dei due Kennedy in Thirteen Days lancia l’immagine del passaggio di consegne tra candidati. Nel 1964 Bob vinse le elezioni per il seggio di senatore dello Stato di New York e, intervistato da Oriana Fallaci per L’Europeo dopo la vittoria, parlò dell’eredità lasciatagli dal fratello ucciso. La Fallaci gli ricordò di un regalo che gli fece JFK, un portasigarette su cui era stata incisa la frase «A Bob. Quando avrò finito io, perché non incominci tu?», e Bobby confessò: «Cominciai a pensarci molto, anzi insistentemente, dopo che lui morì: come mezzo per continuare quello che lui aveva cominciato, anzi quello che io e lui avevamo cominciato insieme. Vede: non solo il presidente, ma noi tutti eravamo coinvolti in certi compiti, in certi sogni. All’improvviso lui non ci fu più. E all’improvviso decisi, compresi che toccava a me portarli in fondo. Attuarli. […]. Quella frase comunque non voleva dire esattamente “prendi il mio posto”. La fece incidere subito dopo la campagna elettorale e voleva dire piuttosto “tu che cosa farai quando io avrò finito… tu come essere umano…”».
Nel corso della stessa intervista fu chiesto a Bobby se non avesse avuto paura, nei momenti in cui era circondato dalla calca durante la campagna da senatore, di essere ucciso come era successo a JFK. «Assolutamente no – rispose –; non avevo quella paura: mi si stringevano attorno come amici. Io non ho quella paura. Nessuno vuole ammazzarmi» e – rispondendo a un’altra domanda – lasciò una dichiarazione metaforica che col senno di poi assume un rilievo molto particolare: «La politica può molto ferire. Ma ci sono tanti altri modi per essere feriti, nella vita. E allora tanto vale essere feriti qui».
L’assassinio, la morte della speranza
Fu questo lo spirito con cui quattro anni dopo si avventurò nella campagna per le primarie del Partito democratico. Commentando la sfida elettorale di quei mesi, Penn Kimball teorizzò che un vecchio tipo di politica era stata ormai soppiantata da un nuovo modello – somigliante al vecchio «quanto la televisione all’oratoria da strada del passato» – individuando proprio in Robert Kennedy l’emblema di una New Politics irrobustita e colorita dall’immaginario cinematografico: «È probabile – scriveva Kimball – che Bob sia sulla cresta di una nuova ondata di eroi spietati come James Bond e audaci come Johnny Carson, ma versatili come Harry Belafonte e virili come uno Steve McQueen addolcito da Tommy Smothers». Un riepilogo destinato chiaramente a infrangersi ma che intuiva il cambiamento in atto nella comunicazione politica.
Thurston Clarke, documentando tappa per tappa la campagna di Bobby per le primarie, ricorda come gli Stati Uniti nel 1968 fossero una nazione profondamente ferita da un punto di vista morale e che meglio di altri il senatore Kennedy seppe intercettare questo disagio: «Proprio per questo, la sua campagna rappresenta un modello per chi si candidi alla Casa Bianca in un periodo di crisi morale. Dopo il 1968 la parola “speranza” è diventata l’equivalente oratorio della spilla con la bandiera americana appuntata sulla giacca […] ma la speranza che offriva Robert Kennedy era qualcosa di specifico: che la fiducia degli americani nella propria integrità e decenza morale potesse essere ripristinata. Il suo assassinio […] non rappresentò solo la morte di un altro Kennedy […] ma la fine di questa speranza».
Quella dolce accettazione mentre giaceva sul pavimento
In quel 1968, ad ogni modo, sembrò davvero che un’America lacerata dalle divisioni, dai mali sociali e dal risentimento prodotto dalla sventurata campagna in Vietnam era pronta a riporre in lui i sogni di “rinascita di una Nazione”. Oltre all’eredità di JFK, Bobby sentì su di sé anche quella di Martin Luther King, ucciso solamente due mesi prima di lui. Quegli ultimi due mesi di campagna elettorale furono pertanto ulteriormente emblematici, perché Kennedy seppe interpretare il brutale omicidio del reverendo King come un segnale e tentò di convincere tanto l’America Wasp, quanto la comunità nera e tutte le altre minoranze, che un cambiamento sociale era urgente nell’interesse di tutti. Con anche il lascito di Martin Luther King sulle spalle, la figura di candidato di Bob Kennedy diventa imponente, accresce la sua nobiltà e rappresenta, grazie alle proiezioni e ai sogni di un popolo, un candidato già eletto, un prescelto dalla caratura mitologica chiamato quasi da un destino superiore a incarnare lo spirito di un’epoca. Per non venir meno a questo spirito e al suo ruolo, Kennedy consumò il suo destino con altrettanta coerenza: «Era totalmente cosciente di quello che gli era successo», racconta Thurston Clarke raccogliendo varie testimonianze della notte in cui fu ucciso, «una specie di dolce accettazione gli percorreva il volto mentre giaceva sul pavimento. Come sempre erano gli occhi a dire tutto. Invece di chiedere “Cosa è successo?” sembravano dire “Allora ci siamo”».
Robert Kennedy è incastonato nella storia degli Stati Uniti come candidato perfetto, cristallizzato nell’immagine di un Icaro che spicca il volo. Per un paradosso, proprio grazie alla funzione rituale e drammaturgica della campagna elettorale, divenne un’icona degli anni Sessanta non per quello che fece ma per quello che avrebbe fatto. Il mito che lo sostiene si anima delle sue promesse e della sua spinta ideale. Fu un eletto/non eletto, insomma, che non arrivò a svolgere il compito di guida del Paese per compierne il destino sacrificale. È in questi termini che ha senso definirlo un campione dell’immaginario americano, perché come i quadri, le fotografie e i film, è importante per quello che rappresenta: di fatto è il più popolare presidente degli Stati Uniti tra quelli che non lo sono mai stati.
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