Su Formiche Leonardo Bellodi analizza la situazione dell’Africa in seguito alle crisi alimentare ed energetica innestate dalla aggressione russa all’Ucraina: «Energia, grano, investimenti. C’è una guerra nella guerra e si combatte per il destino del continente africano. L’Ue dovrebbe avere più chiaro il quadro: la tempesta alimentare in arrivo rischia di fare un paradossale assist a Putin». Interessante anche la motivazione anticoloniale che spinge molti regimi africani verso Putin: «Sono principalmente tre i motivi determinano un atteggiamento “benevolo” nei confronti di Mosca. Il primo è dovuto ai profondi legami della Russia con questi Paesi: forze paramilitari russe sono presenti in Mali e nella Repubblica centrafricana, il governo del Sudan è in trattative per aprire una base russa sulle sue coste e Sudan, Seneal e Mozambico (e Egitto) importano gran parte del fabbisogno di cereali, come abbiamo visto, dalla Russia. La seconda ragione è di carattere ideologico. La Russia, al contrario dell’Europa. È percepita da molti governanti e popolazioni locali come il Paese che ai tempi dell’Unione Sovietica si batteva, attraverso la diplomazia e la forniture di armi, a fianco delle istanze indipendentiste dai regimi coloniali di Parigi, Londra e Lisbona.Infine, sono in molti in Africa a percepire l’atteggiamento europeo iniquo e discriminante. I rifugiati ucraini, bianchi, sono stati accolti senza alcuna difficoltà in Europa anche da quei Paesi, come ad esempio l’Ungheria e Polonia, tradizionalmente contrari, a ogni flusso migratorio».
Non basta la giusta reazione a un’aggressione a cementare alleanze e convergenze, che richiedono una politica specifica di cui ancora non si intravedono i termini concreti.
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Su Startmag Marco Dell’Aguzzo scrive: «Intervistato da Federico Fubini per Il Corriere della Sera, il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, membro del Partito liberale (Fdp), ha detto che l’obiettivo di Berlino e del G7 è “isolare la Russia politicamente, finanziariamente e in termini economici”. Ha criticato la politica energetica dei precedenti governi tedeschi che ha portato il paese a dipendere eccessivamente dalla Russia (“un grave errore”), precisando però che “ci vorrà più tempo” per fare a meno del gas russo, rispetto al petrolio e al carbone: per questo si oppone ai blocchi delle importazioni. Alla domanda di Fubini, che gli chiede perché la Germania si opponga al tetto sul prezzo del gas russo, il ministro risponde così: “Si rischia che la parte russa interrompa i flussi. Se modifichiamo unilateralmente i contratti, Putin potrebbe reagire stoppando di netto le forniture di energia. Non so quali sarebbero le conseguenze per l’Unione europea, ma posso dire che per la Germania non ci sarebbe solo una perdita di benessere o una riduzione della crescita. Certi settori industriali non sarebbero più in grado di produrre nel Paese”. Anche Mosca ha modificato unilateralmente i contratti di fornitura, imponendo che i pagamenti vengano effettuati in rubli nonostante i contratti siano basati sull’euro o sul dollaro».
In Germania, come in Italia e in generale nei paesi manifatturieri, in realtà si teme che sia la Russia a bloccare il flusso energetico, mentre si sostengono a parole le dichiarazioni europee sull’embargo senza però consentire che dalle frasi retoriche si passi ai fatti operativi.
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Su Formiche Francesco Bechis scrive: «Di qui le preoccupazioni del fianco Sud. Spagna, Italia, Grecia, Portogallo non a caso hanno riallacciato i contatti negli ultimi mesi: una Nato con un baricentro troppo orientato a Nord rischia di disinteressarsi del Mediterraneo. Con buona pace della minaccia terroristica, delle implicazioni militari dei flussi migratori e dell’instabilità dell’Africa settentrionale e saheliana, oltre che delle tensioni (anche fra alleati, ad esempio tra Grecia e Turchia) nell’East-Med. Una polveriera pronta ad esplodere con la crisi alimentare africana innescata dal blocco del grano ucraino e russo e l’instabilità geopolitica che inevitabilmente farà seguito alla fame».
Bene che ci siano contatti più stretti tra i paesi mediterranei europei, anche perché bisogna superare le differenze di valutazione e di comportamento anche tra Italia e Francia sulla Libia di cui si pagano ancora le conseguenze, senza contare che il ruolo della Turchia è sempre più cruciale e non può essere trascurato. I contatti di Draghi con Sofia Ankara per cercare di sbloccare le esportazioni alimentari ucraine lo dimostrano.
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Su Huffington Post Italia si scrive: «Se l’esercito russo riuscisse ad avanzare in Ucraina come fa il rublo sui mercati valutari Mosca avrebbe già vinto la guerra. Nel corso del 2022 la moneta russa è stata la migliore tra le 31 valute principali monitorate da Bloomberg. Se ad inizio anno servivano 75 rubli per un dollaro adesso ne bastano 62, il 17 per cento in meno, con la valuta russa ai minimi sul biglietto verde da due anni e mezzo».
Naturalmente i dati monetari non esauriscono e non sempre esprimono il livello dell’economia di un Paese, ma è bene ricordare che all’inizio della guerra e delle sanzioni si parlava di inevitabile crollo del rublo, e invece è capitato il contrario, e i fatti hanno la testa dura.
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Su Strisciarossa Paolo Soldini scrive: «Non sapremo mai se le cose sono andate veramente così ma, data la situazione, è anche possibile che nelle settimane scorse Mosca abbia ricevuto da Helsinki e Stoccolma, oppure da Washington o dal quartier generale della NATO assicurazioni credibili sul fatto che nei due paesi non verranno installate armi di quel tipo. Questo spiegherebbe la relativa souplesse con cui, pur in una situazione di gravi tensioni e di confronto durissimo con l’occidente, è stata accolta la notizia. In fondo, a meno non si voglia pensare che Putin avesse in mente veramente di aggredire la Finlandia o la Svezia neutrali (cosa che non è proprio da escludere considerati i precedenti), è vero che – come ha detto lui stesso – l’adesione alla NATO “non è un problema” per i russi se non comporta un aumento delle minacce militari sul loro territorio. È stato invece un problema, e continua ad esserlo, agli occhi di Mosca l’aderenza al meccanismo integrato dell’alleanza atlantica dei tre stati baltici, in cui si configurano rapporti di tipo “ucraino” con le minoranze russofone, che sono molto consistenti in Estonia e Lettonia (oltre il 25 per cento della popolazione complessiva) e rimarchevoli in Lituania (5-6 per cento) e che, specialmente da parte del governo di Tallinn, sono sottoposte a discriminazioni che sarebbe bene fossero scoraggiate con più decisione dagli alleati nella NATO e dalle istituzioni dell’Unione Europea».
Se si vogliono evitare rischi di un allargamento del conflitto a paesi della Nato, cioè di passare a una guerra generale, oltre al rafforzamento della dissuasione militare conviene vigilare un po’ meglio sul rispetto dei diritti delle minoranze (ma l’esempio della Turchia non incoraggia speranze in questo campo).
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Su Startmag Francesco Damato scrive: «Accusato dal giornale più ostile, che è naturalmente Il Fatto Quotidiano, di “scaricare sui partiti le colpe del suo governo”, Mario Draghi si sta forse togliendo più banalmente e umanamente qualcuno dei sassolini accumulatisi nelle scarpe in questi difficili mesi di campagna elettorale, di epilogo della legislatura e persino di una guerra – quella nell’Ucraina – sulla quale forze e singoli esponenti della maggioranza si distinguono cercando più voti che pace».
Anche senza nessuna simpatia per i 5 stelle, la lettura della situazione politica più diffusa, quella che denuncia partiti “litigiosi” rei di non obbedire alle direttive del premier che esprime in sostanza il commissariamento europeo dell’Italia capovolge la logica democratica, imputa ai partiti la ricerca del consenso elettorale come se questo non fosse il fondamento di ogni governo democratico. In quasi tutti gli altri grandi paesi occidentali durante la pandemia o la guerra è stata data la parola agli elettori e nessuno si è scandalizzato. In Italia solo pensare agli elettori, cioè alla sovranità popolare, sembra una bestemmia.
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Su Affari italiani si scrive: «Anche perché, come spiega Repubblica, l’ordine arriva direttamente dall’Unione europea. Anzi, l’agenda che l’Ue chiede all’Italia va ben oltre. “Nelle raccomandazioni che la Commissione presenterà domani la piena attuazione del Pnrr viene definita “essenziale”. Poi ancora pressing su taglio dell’Irpef, delle tasse sul lavoro e sulla revisione del catasto”, si legge su Repubblica. L’avvertimento arriva dallo stesso Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia, che in un’intervista a La Stampa dice: “Senza l’attuazione del Recovery Plan l’Italia rischia la recessione”. E aggiunge: “Draghi ha messo l’attuazione del piano al centro del suo impegno, con chiarezza e determinazione. È necessario che l’intera classe dirigente prenda atto del contesto, e vedo una certa fatica al riguardo. Lo capisco: negli ultimi due anni abbiamo tenuto in vita l’economia con un sostegno universale. Oggi però non si può più. Tutti stanno uscendo da questa logica, e i Paesi ad alto debito sono ancor di più richiamati a farlo”».
Gentiloni dovrebbe essere il rappresentante dell’Italia nella Commissione europea, si comporta da rappresentante dell’Europa più esigente nei confronti dell’Italia, chissà che cosa capiterebbe se un commissario francese o tedesco si comportasse così nei confronti del suo paese.
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Su Open si dà conto della replica di Paolo Gentiloni a Matteo Salvini che aveva detto: «Se l’Ue chiede di massacrare gli italiani con il Pnrr la risposta è no, ci governiamo da soli». Il riferimento era alla richiesta di aggiornare le stime catastali che potrebbe preludere a reintrodurre l’imposta sulla prima casa. Gentiloni replica che la commissione «non ha nessuna intenzione di massacrare nessuno di tasse», sostiene che la richiesta è solo quella di «aggiornare i valori catastali agli attuali valori di mercato».
Sulla questione probabilmente si troverà una soluzione concordata nella maggioranza, ma l’insistenza nel dettare da Bruxelles l’agenda delle riforme, anche quando non hanno conseguenze, risulta difficile da capire e da tollerare per i toni assertivi e irrispettosi del dibattito politico nazionale che sta assumendo.
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