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Blade Runner (o delle macchine che sperano nei miracoli)

Il film di Scott poneva domande radicali su rapporto tra creatura e creatore. Villeneuve porta il problema all’estremo mettendo nei suoi replicanti il desiderio di procreare. Per diventare fino in fondo padroni del proprio destino

Simone Fortunato
16/10/2017 - 2:00
Spettacolo
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Partiamo da domande semplici: è un buon film? Merita una visione al cinema? E soprattutto, meglio il film originale di Ridley Scott o questo? Sì, è un buon film. È una di quelle cose, un po’ come Dunkirk, che visivamente solo il cinema riesce a rendere al massimo. E sì, il film di Scott è un’altra cosa, anche se questo sequel diretto dal bravo Denis Villeneuve (Prisoners, Sicario, Arrival) non sfigura.

Siamo nel 2049, diversi anni dopo la caccia tragica di Deckard. Ora c’è un nuovo cacciatore di androidi, interpretato dall’ottimo Ryan Gosling, replicante pure lui come tanti ormai a Los Angeles, dove è ambientato il film. Replicanti di ultima generazione, in tutto e per tutto simili agli uomini, a cui spesso si sovrappongono.

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Si parte con un occhio gigante che fa molto 2001: Odissea nello spazio (i riferimenti a Kubrick spaziano e arrivano persino a Shining nella sequenza nel vecchio Vintage Casinò con Gosling e Ford), ma il film di Villeneuve è un’opera postmoderna, capace cioè non solo di avere tanti livelli di lettura ma anche di attraversare generi cinematografici e suggestioni visive assai distanti. Kubrick ad esempio è un po’ ovunque. Lo zampino di Sergio Leone è evidente nella sequenza d’apertura dai contorni western con tanto di albero secco, casa sperduta nel deserto e pentola a scandire un duello quasi muto tra l’agente K (Ryan Gosling) e il replicante interpretato dal gigantesco Dave Bautista. E ancora: la verticalità degli spazi tipica del film originario vive un po’ dappertutto nelle quasi tre ore di narrazione.

Ritorno al 1982 e distacco
Il Blade Runner del 1982 lo ritroviamo non tanto nel claudicante e ahinoi sin troppo affaticato Harrison Ford, paradossalmente il punto debole di un film che è al tempo stesso sequel e omaggio al film precedente. Lo ritroviamo nella pioggia acida, nell’ambientazione cupa, nel punto di vista interno alla vicenda, nei riferimenti alla letteratura hard boiled oltre che nella caratterizzazione di alcuni personaggi fotocopia: il creatore ambiguo e la prostituta che riprende fin nelle fattezze il personaggio interpretato tanti anni fa dalla splendida Daryl Hannah. E ancora, la musica coinvolgente, quasi ossessiva firmata da Hans Zimmer, la fotografia di Roger Deakins e il tentativo riuscito di coniugare una computer grafica assai realistica con scenografie e strumentazioni vintage, come ben si vede nella sequenza del grande archivio fatto da migliaia di cassettini in legno.

In realtà il regista canadese, pur mantenendo un impianto visivo simile, si distacca dall’idea che era alla base del film di Ridley Scott. Là infatti la tragedia stava tutta nell’irriducibilità del grido di infinito di androidi a tempo che desideravano una vita per sempre contro i loro creatori umani diffidenti, sospettosi, padroni senza scrupoli. Un po’ come gli eroi antichi del mito, che non si meritavano divinità immortali crudeli, così i replicanti capitanati da Rutger Hauer cercavano disperatamente un contatto con un creatore disinteressato però al loro destino. In una delle scene più forti, Roy Batty alias Rutger Hauer acceca e uccide con le proprie mani il debole creatore e una sequenza del genere fa il paio con quella in cui, nel film di Villeneuve, Niander Wallace (Jared Leto) crea dal nulla un robot dalle sembianze di donna per poi violentare la sua femminilità impedendole per sempre di procreare. Ecco allora il vero punto di differenza tra i due film. Nel vecchio Blade Runner si metteva a tema il rapporto tra uomo e Dio, tra macchina e creatore, in questo sequel il motore della storia è dato dalla possibilità reale o presunta dei replicanti di procreare. Sono gli stessi replicanti a chiamare questa possibilità “miracolo”, e i riferimenti biblici non mancano in una storia dove perfino i nomi sono importanti (Rachel, ovvero Rachele, è il nome della presunta madre).

Un bacio fantasma
Al cuore della vicenda quindi non c’è tanto la creazione, ma la procreazione, la capacità di essere padroni del proprio destino, come dice a un certo punto un personaggio che spera in una rivolta dei replicanti. Così, Blade Runner 2049 si avvicina per certi versi al bel I figli degli uomini, dove un’altra storia cupa e sanguinosa veniva riscattata dalla nascita miracolosa di un bambino dopo anni di sterilità planetaria.

Villeneuve mescola le carte. Da un lato attinge a una bella fetta di fantascienza più o meno recente: il mondo devastato dove precipita la macchina incidentata di Gosling sembra una riedizione di quell’universo di delinquenti che affollava la New York perduta nel grande 1997: Fuga da New York, così come la divisione tra una società di sani e una di malati sembra risentire delle atmosfere di Gattaca. Altre cose sparse: tutto il tema della memoria e dei ricordi autentici che rendono ancora più vere le macchine, è una ripresa di Strange Days della Bigelow.

Tanti i riferimenti a mondi diversi e film diversissimi per ambientazioni e tematiche: Villeneuve, pur arrancando un po’ nell’ultima ora, complice il personaggio di Ford statico e mal scritto, ha il grande merito di aver rispolverato il tema dell’identità e dell’appartenenza. «Chi sono io?», si chiede in continuazione il cacciatore di androidi impersonato da Ryan Gosling. E lo stessa domanda riecheggia nella parte più sentimentale del film, in quel rapporto sincero e delicato tra l’agente K e una macchina, un’ombra dapprima, che poi le diavolerie della tecnica renderanno presenza sempre più vicina al protagonista. Presenza in qualche modo vera, per quanto ancora confinata nel virtuale e impalpabile, impossibile da toccare e da abbracciare, come ci ricorda Villeneuve forse citando, chissà, i tanti abbracci di cui è zeppa la mitologia classica, nella scena del bacio fantasma tra il protagonista e Joi, la bellissima donna replicante la cui immagine ritorna in ogni angolo della città, un bacio non dato tra due ombre sospese che possono solo sfiorarsi.

Blade Runner 2049 si innesta dunque nel grande filone della fantascienza delle macchine, lo stesso che anni fa partorì quel film memorabile che è Terminator e, più recentemente. la notevole serie tv Westworld, dove un parco di divertimenti popolato da androidi al servizio degli umani diventa terreno di una vera e propria battaglia per la libertà.

Dubbi e colpi di scena
Di questa battaglia tra uomo e macchina si vede qualcosa nel film del regista canadese, che è abile nel giocare con le attese dello spettatore non lasciandogli mai capire con certezza chi tra i tanti personaggi sia realmente umano, umano sin dalla nascita. Lo spettatore ha dei dubbi su tutti, da Robin Wright, il capo della polizia, allo stesso Gosling, e alla fine, dopo molteplici colpi di scena, viene preso in contropiede.

Quello che però conta più di tutto, ci dice questo grande regista canadese, non è uno sguardo sulla natura biologica dell’uomo ma sulla sua capacità di amare, di perdonare, di sacrificarsi per l’altro, per un altro che magari ha già avuto il più grande dei doni, una vita umana. Un miracolo che si può solo contemplare, come ricorda il bel finale, classico fino al midollo, dominato da una grande figura di eroe che per amore è pronto a dare tutto se stesso.

Tags: blade runnerCinemafantascienzafilmintelligenza artificialerobottecnologia
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