Il tragico caso Bikkembergs, la multinazionale distrutta dal fisco italiano per una evasione che neanche poteva permettersi
«Così il fisco ci ha distrutti». È stata Deirdre Margaret Domegan (foto sotto a sinistra), manager canadese della casa di moda Dirk Bikkembergs, a ricostruire al Corriere Economia la triste vicenda vissuta in Italia dal celebre marchio. Una disavventura tributaria e giudiziaria che di fatto ha segnato la fine delle attività di una grande azienda nel nostro paese, e che si è conclusa dopo molti anni con l’assoluzione in Cassazione della stessa Domegan, accusata di omessa dichiarazione dei redditi. «È una storia che può accadere anche ad altri», ha puntualizzato Domegan al Corriere, «non vedo come lo Stato italiano abbia interesse a massacrare le aziende». E «anche il modo di lavorare della Guardia di Finanza è quasi militare, si crea da subito un clima intimidatorio».
Il contenzioso fiscale, risalente al 2006 e protrattosi per 8 anni, verteva intorno alla presunta esistenza di una stabile organizzazione a Fossombrone (Pu) della società commerciale di diritto lussemburghese Iff all’interno della sede italiana della società manifatturiera 22srl. Nel luglio 2010 entrambe le società, controllate dal gruppo imprenditoriale con sede in Olanda International Heroes Group, proprietario all’epoca del marchio Bikkembergs, uscirono sconfitte in primo grado. La sentenza, emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Pesaro, di fatto convinse i vertici aziendali a liquidare il gruppo e vendere il marchio. L’anno successivo, però, la Commissione tributaria regionale delle Marche ribaltò il verdetto e due mesi fa la Cassazione, nell’ambito del parallelo procedimento penale contro la signora Domegan, ha dichiarato, dopo due sentenze di merito sfavorevoli, che «il fatto non sussiste», che la Iff non aveva una stabile organizzazione in Italia e che nessun illecito in violazione della normativa fiscale italiana era stato commesso.
«Ora attendiamo che la Cassazione si pronunci anche nell’ambito del processo tributario», spiega a tempi.it l’avvocato Francesco Giuliani, partner dello Studio Fantozzi e Associati e legale della manager. «Siamo fiduciosi perché, dopo una prima sentenza sfavorevole che ci condannava a restituire 130 milioni di euro, il secondo grado si è già rivelato favorevole, riducendo l’importo a un solo milione di euro, per il quale abbiamo già presentato ricorso».
Avvocato Giuliani, come ha fatto il fisco italiano a «distruggere» Bikkembergs?
Nell’ambito del procedimento di primo grado, l’Agenzia delle entrate non aveva tenuto in alcuna considerazione, tra gli elementi di prova, dei documenti ufficiali ricevuti dalle autorità lussemburghesi che dimostravano che la Iff si qualificava come società domiciliata e operante in Lussemburgo, con tanto di personale alle proprie dipendenze. Né l’Agenzia delle entrate aveva fornito alcuna prova attestante la presenza di una stabile organizzazione della predetta società di diritto lussemburghese in Italia. Inoltre, per calcolare il presunto reddito imponibile, l’Agenzia delle entrate non si era servita dei bilanci della società lussemburghese, peraltro certificati da autorevoli società di revisione dei conti, ma aveva utilizzato erroneamente un “metodo induttivo”, gonfiando in modo eccessivo i presunti proventi della società, comminandole così il pagamento di 130 milioni di euro tra imposte, sanzioni e interessi.
Pura follia, perché è come se il fisco avesse accertato 100 a una società la cui forza produttiva, in realtà, era 10. Ricordo che Bikkembergs, infatti, non produce auto, ma vestiti. E un accertamento da 130 milioni di euro sarebbe legittimo aspettarselo, forse, nei confronti di una casa automobilistica o di una grossa compagnia assicurativa; soggetti con volumi di fatturato completamente diversi. Non certo paragonabili a quelli di un marchio della moda delle dimensioni di Bikkembergs.
Ma «il fatto non sussiste», secondo la Cassazione. Giusto?
La sentenza emessa in primo grado nel giudizio tributario dalla Commissione tributaria provinciale di Pesaro, che ha di fatto messo in ginocchio il gruppo, è stata ribaltata nel 2011 dalla Commissione tributaria regionale di Ancona, che ha fatto notare come sembrasse piuttosto strano che tutte le attività su scala mondiale e le decisioni strategiche di Bikkembergs fossero condotte in un piccolo paese delle Marche, per di più da personale amministrativo addetto all’elaborazione degli ordini di produzione e nulla più. Successivamente, poi, a settembre 2014, la Corte di Cassazione si è pronunciata nell’ambito del procedimento penale contro l’amministratrice di Iff Deirdre Domegan, dichiarando, dopo due sentenze sfavorevoli emesse dal Tribunale di Urbino e dalla Corte di Appello di Ancona, che la società di diritto lussemburghese non aveva una stabile organizzazione in Italia e che la mia assistita e la sua società non avevano commesso alcun tipo di illecito a fronte di presunte violazioni della normativa fiscale italiana. Ora, perché la vicenda possa dirsi definitivamente conclusa, occorrerà attendere la sentenza della Cassazione in ambito tributario. Certo è che, a questo punto, i giudici dovrebbero compiere uno sforzo notevole per ribaltare l’esito del processo. Teoricamente è possibile, trattandosi di due giudizi paralleli e indipendenti, ma gli elementi già visionati dalla Corte, in sede penale, non sono stati valutati idonei a stabilire la presenza di una stabile organizzazione in Italia e, pertanto, ci auguriamo che tutto ciò venga riconfermato dalla sezione quinta civile della medesima Corte.
Intanto, però, Bikkembergs ha chiuso bottega. Con quali conseguenze?
Il marchio è stato ceduto a una società italiana, mentre il gruppo è entrato in liquidazione e non esiste più. La conseguenza negativa è duplice: i dipendenti della società lussemburghese sono rimasti senza lavoro; mentre le ricadute in termini di indotto per l’Italia sono state pesantissime, perché Bikkembergs, per confezionare i propri prodotti, partiva anche da semilavorati italiani che gli venivano forniti da aziende del territorio. Molte di queste aziende ora hanno ridotto la loro attività e alcune hanno addirittura chiuso.
Bikkembergs tornerà mai in Italia?
Il marchio ha oggi una nuova vita a sé, sui cui non mi esprimo, perché non ho conoscenza diretta dei fatti. Quanto allo stilista Dirk Bikkembergs, invece, le posso assicurare che è rimasto piuttosto “scottato” dall’intera vicenda e non penso che tornerà. Forse, però, sarebbe meglio chiederlo a lui in persona… Il tema di fondo non è tanto Bikkembergs e basta, quanto piuttosto quello degli imprenditori stranieri che vogliono investire in Italia. Tengo a sottolineare che non stiamo parlando di imprenditori italiani alle prese con il tentativo di elaborare articolati escamotage fiscali per eludere o peggio evadere il fisco all’estero, magari in qualche paradiso fiscale, bensì di una multinazionale che aveva insediamenti in cinque paesi europei e che voleva investire da noi perché credeva fortemente nei valori e nella qualità dei prodotti “made in Italy”. Li abbiamo persi e con loro abbiamo perso anche il gettito che già assicuravano all’erario.
Il nostro paese non sarà mai competitivo con i paradisi fiscali?
Non è questo il punto. Tralasciamo anche paesi come l’Olanda o il Lussemburgo, considerati – spesso a sproposito – a fiscalità privilegiata, e prendiamo per esempio l’Inghilterra, che non è certo un paradiso fiscale: lì le istituzioni fanno di tutto per favorire l’attività di impresa, concordando imposte ragionevoli con gli imprenditori, inglesi e non, che intendono investire, e ragionando insieme anche su una prospettiva pluriennale. Questa attività si chiama “ruling” e non è condotta sottobanco o sul confine della legalità, bensì sulla base di elementi certi, tecnici, accorgimenti volti a mettere il contribuente al riparo da brutte sorprese come quelle in cui è incappata Bikkembergs, in una situazione di certezza del diritto.
Quella certezza del diritto che, purtroppo, qui da noi è ancora troppo spesso un miraggio per le imprese…
Anche in Italia esiste il ruling, ma per fattispecie molto più settoriali e limitate, e soprattutto nell’ambito di un sistema generale di profonda incertezza normativa, rispetto alla quale i contribuenti – e gli imprenditori in particolare – si trovano esposti a eventi imprevedibili e potenzialmente letali per la propria attività.
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1 commento
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INTERESSANTE sarebbe sentire anche la versione della controparte. Mai sentito un avvocato che ritenesse colpevole il proprio cliente. E poi parliamoci chiaro se una azienda ha nulla da nascondere perché intrallazza con Paesi come Lussemburgo e simili ? La risposa vera sottostante la sanno tutti , ma a livello formale tutti si appellano alla legittimità del diritto internazionale favorito dagli stessi che di questa supposta legittimità fruiscono.
Nessuno invece si appella alla “Trasparenza” dei soggetti e delle transazioni ….quella si che dovrebbe essere la vera discriminante per stabilire la legittimità ad operare . In fondo in fondo il ragionamento è di una semplicità pure ovvia: ma se non ho nulla da nascondere perché devo frapporre una serie infinita di schermi e scatole cinesi ?
E’ per questa ragione che la gente è arrabbiata e che preso scenderà in piazza con la forca , Alla illegittimità cronica chi non ha strumenti reagisce con la rabbia .