Il cielo in un tinello

Biciclettata in riva al lago coi bambini (sei-virgola-due chilometri meglio di un film)

Sei-virgola-due chilometri in formazione ciclistica così composta: i due grandi (femmina e maschio li creai) con le loro biciclette (lei, un’esplosione di rosa firmata Hello Kitty, lui, rotelle appena tolte – prese in mano solennemente pochi giorni fa pronunciò: «Un giorno regalerò queste rotelle ai mie figli e dirò loro: “Un giorno mio padre me le ha tolte e io ho imparato ad andare senza!»), il più piccolo nel seggiolino davanti sulla mia.

Da casa dei miei genitori, costeggiando il Lago Maggiore, al paese dopo (o prima, a seconda dei punti di vista).

Pronti via.

Finalmente hanno imparato a seguire la linea bianca a bordo strada (io un po’ meno, traballo e al terzogenito ballano le guance).

Dopo aver percorso il tragitto ormai per noi tradizionale (giù per la discesa fino al lago, poi a sinistra passando per il parcheggio della spiaggia e davanti al Museo sul fiume, poi un po’ di difficoltosa salita che si affronta parte in sella e parte spingendo le bici a mano), attraversiamo un ponticello di legno e una volta dall’altra parte del fiume, zac!, giù la catena della primogenita. Non è la prima volta, quindi, con fare ormai disinvolto, fermo tutti, appoggio a un muretto la mia bici (sempre con sopra il terzogenito) e metto a testa in giù quella della primogenita e l’aggiusto. Passa un papà con due figli al seguito, materassino sotto braccio, diretti alla spiaggia, mi sorride; sarà capitato anche a lui, e pare essere ben contento di non essere al mio posto. Si riparte. Nella mia testa si materializza l’ipotesi di superare la nostra usuale destinazione (quindi non la frazione in mezzo tra questo e quel paese, dove io e il marito abbiamo fatto il ricevimento di nozze, e dove coi bimbi in bicicletta siamo già arrivati; ma superare quella frazione e raggiungere il paese successivo).

Passiamo di fianco alla darsena in fondo al paese da cui si tuffano i teenager per fare i grossi tra di loro e agli occhi delle ragazze. «Bimbi! Sapete che anch’io mi tuffavo da lì quand’ero…», oddio, sto per dirlo davvero «…giovane» sibilo a bassa voce.

I figli – ai quali l’informazione era già arrivata, quindi non si scompongono più di tanto – procedono dietro la galleria.

«Fatemi sentire i campanelli!» inneggio come una rockstar dal palco «Ciao Milanooooo!!! Fatemi sentire la vostra voceeee!». Mancano solo gli accendini. «Drin! Drin! Drin!».

Poi c’è un pezzo brutto dove bici alla mano bisogna entrare per un pochino nella galleria (cosa penseranno di me quelli che ci sfrecciano in macchina vicinissimo vedendo quella fila di bimbi esposti al pericolo? Spero che tra questi non ci sia nessuno che mi conosce, tipo mio padre), per poi subito dopo passare dietro un’altra galleria. Lì di solito ci fermiamo perché da quel punto in avanti bisognerebbe passare per una brutta strettoia, tra una casa e la fiancata di un Hotel-Ristorante. Quell‘Hotel-Ristorante, del nostro ricevimento.
Mentre stiamo per fermarci e tornare indietro, superiamo un signore in cui riconosco il maître del Ristorante (c’era anche quel giorno di otto anni fa): medito, voglio metterlo nelle condizioni di pensare di porgermi una mano per realizzare il proposito di superare quel punto senza passare dalla pericolosa strettoia; ovvero, faccio in modo che sia lui a fare qualcosa per me lasciandogli la soddisfazione di credere che sia stata un’idea sua (donna-uomo, avete presente?). «Secondo lei si può passare dalla strada?» «No, no, assolutamente, troppo pericoloso». Sospiro. «Peccato bimbi… » (occhioni-occhioni-occhioni). Pausa di tre millesimi di secondo. «Ma passate dall’hotel! Vi aiutiamo noi a far passare le biciclette dalle scale!». «Davveroooo? Grazie!!».
Sparisce e torna subito dopo con altri due camerieri e ognuno di loro prende una delle nostre bici (io prima estraggo dalla mia il terzogenito assai perplesso) e la trasporta giù da delle scale in fondo alle quali si apre la terrazza di quel giorno. «Sapete bimbi (lo sanno già, l’ho già detto loro un miliardo di volte, ma lo ridico, un po’ ad alta voce, apposta, ndr), qui la mamma e il papà hanno fatto il loro ricevimento di nozze!». Mentre la primogenita mi guarda come a chiedere «Ma sei scema?», il maître subito: «Ah, davvero? Quando? Ma allora siete nostri ospiti! Vi parcheggiamo noi le bici, voi fate un giro qui!».
Mi sento come Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany quando il tizio dell’omonima gioielleria cortesissimo dice a lei e a George Peppard che su quell’anello da due soldi trovato nelle patatine potrebbe far eseguire un’incisione: «Non te l’avevo detto che è un luogo delizioso?». «Qui c’era il buffet, e qui i nostri amici che suonavano, e in mezzo non c’erano tutti questi tavoli, c’era lo spazio libero perché si potesse ballare… e là abbiamo fatto una foto, e anche là!». Un po’ emozionata a ripercorrere quei luoghi coi bimbi, che sgranano gli occhi, sospetto che la primogenita stia sforzandosi di immaginare la scena: io e suo padre tirati a lucido, accennare un goffo giro di walzer guardati benevolmente da tutti. Ripartiamo, salutando e ringraziando tanto quel maître così gentile.

Dietro all’ultima galleria che ci separa dal nostro obiettivo cade un’altra volta la catena della primogenita. Stavolta però non c’è nulla nei dintorni a cui appoggiare la mia bici con terzogenito incluso, quindi tento l’esperimento: faccio tenere in piedi la bici – sempre con incapsulato dentro il giù piccolo – ai due grandi, mentre ri-smanetto con la catena. Tempo tre secondi e tutti i figli cascan per terra schiacciati chi in un modo chi in un altro dalla mia bici. Per fortuna nessuno si è fatto male (solo i mie due neuroni, vergognandosi dell’idea malsana appena partorita, e incolpandosene vicendevolmente, non si sono più parlati per un buon due minuti), ma da una villa arroccata sull’esterno della galleria (subito adocchiata dalla mia Material Girl quando ci siamo passati davanti: «Bella questa! Sembra un castello!») accorre in nostro aiuto una signora, presumibilmente che vive lì, più rocambolescamente che Lindsay Lohan in fuga da un rehab. Impietosita? inorridita? semplicemente cortese?, tiene su lei la mia bici e non risparmia complimenti a tutti e tre i bimbi («Che occhi!»). Poi, incalzata dalla primogenita, ci elenca il nome di tutti i suoi sette nipoti, e mi lascia con un «Signora, ha fatto dei capolavori, ne faccia altri!». Primo invito di questo genere che mi capita di ricevere. Di solito al primo figlio: «Bello! Complimenti!», al secondo: «Che brava!» (ho seguito la procedura del primo, penso sentendo di non meritare tanto plauso), al terzo ti guardan storto, c’è, evidentemente, qualcosa che non va: sorrisino di circostanza e via.

Alle porte del paese-mèta, ci fermiamo per una telefonatina al marito, cui chiedo, dopo aver raccontato brevemente cos’abbiamo fatto («Ma tu sei matta»), se, nel tornare a casa dal lavoro, può venirci a recuperare in macchina. Lo aspettiamo in un parchetto giochi lì vicino. Loro hanno ancora le forze (soprattutto il terzogenito finalmente disarcionato) di salire, scendere, arrampicarsi, scivolare, passare dentro grandi tubi… Fin quando il secondogenito, che non si smentisce quanto a solitamente primo a cedere alla stanchezza tutto d’un botto, afflosciandosi come un burattino cui abbiano tagliato i fili, si stende su un masso piatto, lungo quanto lui.

«Sono stanco». Poi di fianco gli si stende la sorella, poi il fratellino. Purtroppo non c’è spazio per me, come per il povero Leonardo DiCaprio in Titanic che per far spazio sulla zattera a Kate Winslet sprofonda assiderato nell’Oceano come un merluzzo congelato, se no mi ci sarei stesa pure io lì. Per un momento temo (spero?) che lì ci si addormentino.

Finalmente all’orizzonte si staglia una figura nota. Gli corriamo tutti incontro, come naufraghi verso la terraferma, chi raccontando una cosa chi un’altra di quei sei-virgola-due chilometri di filmino della mia, nostra vita, e di pezzi di vita altrui percorso su due ruote.

Tutto è un’avventura se hai occhi per vedere e memoria per raccontare.

@AnelliEva

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2 commenti

  1. Alcofibras

    cara signora

    fossi in lei eviterei di comprare alla bambina oggetti griffati hallo kitty

    il motivo è presto detto: hallo kitty è il modello ideale di donna secondo la cultura maschilista imperante, infatti – ci faccia caso – non ha la bocca

  2. Antonio

    Che storie stupende da questo blog!

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