
Berardi e quel calcetto tra amici. Storia del diciannovenne che ha schiantato il Milan
Nel rivedere le immagini del poker con cui Berardi ha schiantato ieri sera il Milan portando all’esonero Allegri (beffardo il calcio: la sua avventura rossonera arriva al capolinea là dove il livornese si fece conoscere a tutti come tecnico, con la promozione dei nero-verdi in B nel 2008) c’è una cosa che cattura subito l’attenzione: è il carattere di questo ragazzino nemmeno ventenne, il piglio con cui non si è fatto sopraffare dal tremore legittimo di chi si trova a perdere 2-0 contro una grande squadra dopo pochi minuti, e rischiando un colpo dietro l’altro ha trasformato l’incubo in sogno.
QUEL VIAGGIO A MODENA. Oggi per Berardi è il giorno della consacrazione, dei paragoni con i grandi, con Piola, Totti e Del Piero e le altre leggende che in età giovane sono riusciti a fare quattro reti. Ed è il giorno della sua storia avvincente, e di come è riuscito ad arrivare a giocare in Serie A. Giocava a pallone nelle squadre giovanili di Cosenza, non sembrava riuscisse ad andare tanto in là, finché un giorno, aveva 16 anni, non salì a Modena per trovare il fratello Francesco, in Emilia per studiare Infermieristica. Gli amici di quest’ultimo organizzarono una partita a calcetto, mancava il decimo e invitarono proprio Domenico. Che con la palla tra i piedi fece follie, ammutolì quei ragazzi più grandi di lui. Tanto che uno di loro lo segnalò a Luciano Carlino, allenatore in seconda degli Allievi Nazionali del Sassuolo. A Domenico bastò un provino per finire nella rosa delle giovanili dei nero-verdi, e da lì tornare in Calabria solo per le vacanze.
LA PROGETTUALITA’ NON È TUTTO. Berardi è arrivato in silenzio al calcio professionista: nell’estate del 2012, neanche 18enne, Di Francesco lo aggregò al ritiro del suo Sassuolo, e fin dalla prima partita fece capire di volerlo in campo dal primo minuto. Il calabrese lo ha ripagato con 11 centri, cifra che già oggi ha eguagliato nella massima serie con meno della metà dei match giocati. E se c’è una cosa che la sua storia insegna al pallone del terzo millennio è che la progettualità conta, ma non è tutto. Viviamo un calcio in cui le leve più verdi entrano nelle squadre giovanili dei top club poco più che bambini, 10-12 anni. Qualche mese fa, addirittura, il Barcellona prendeva uno svedese di 9 anni, e si possono trovare anche casi più clamorosi. Ragazzini che vengono già trattati come piccole stelle, covati con tutte le attenzioni del caso e messi troppo in fretta alle strette con alte richieste agonistiche. Il paradosso di Berardi sta proprio qui: a 16 anni, età in cui è arrivato al Sassuolo, sarebbe stato già “vecchio” per un vivaio di qualche grande. Invece per lui è stata la prima cima di un’ascesa a basso profilo.
GLI ALTRI GIOVANI FATICANO. È facile ora incanalare la sua storia. C’è chi lamenta il fatto che in Italia andiamo troppo spesso a cercare le future stelle all’estero e non guardiamo a quel che abbiamo in casa, chi si gonfia di un eccesso di giovanilismo e vorrebbe Berardi già in qualche top club, perché la provincia fa le ossa ma dopo un po’ logora, e uno così mica si può rovinarlo. Tutto vero. Eppure se nella Serie A di oggi brillano alcuni “nonni” come Totti, Toni e Gilardino è perché tante giovani promesse continuano a farsi attendere: la scontrosità di Balotelli, il carattere di Osvaldo, le gambe di El Shaarawy, l’incostanza di Insigne, la ripartenza lenta di Destro, le incognite di Borini. E mettiamoci anche l’eclissamento di Lamela, Jovetic, Ljajic… Tutti nomi che tra i professionisti sono stati accolti con le legittime strombazzate, attesi come il futuro concreto della nostra Serie A. A differenza di quanto successo per Berardi. Che al calcio giocato, ci è arrivato per caso in treno. Dalla Calabria a Modena.
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