Banchieri cattolici e poveri ricchi

L’Italia, un mercato costruito sul pilastro del credito, è diventata ancor più “bancocentrica” da quando il nuovo Testo unico bancario ha ripristinato il modello della banca universale, abolendo quel limite all’esercizio del credito introdotto negli anni Trenta, al tempo in cui lo Stato dovette intervenire massicciamente per salvare il paese dal crac che si profilava dopo decenni di sempre più gravi errori delle banche, sovraesposte e intrecciate nell’azionariato di gruppi industriali sempre peggio guidati. Non ci si può dunque stupire se ieri per Fiat e Piaggio e oggi per Telecom, domani per Alitalia come per qualunque altra partita di rilievo, siano proprio gli istituti di credito a rappresentare nel nostro paese la quintessenza del potere. È, perciò, un interrogativo centrale quello riecheggiato la scorsa settimana: cosa contraddistingue l’azione del banchiere cattolico? Le occasioni in cui è stato sollevato il tema sono state due. La prima a opera del banchiere cattolico numero uno in Italia, il professor Giovanni Bazoli che presiede San-Intesa. La seconda a opera del segretario di Stato vaticano, monsignor Tarcisio Bertone, in un incontro organizzato da quello storico cenacolo (Etica e Finanza) che all’ombra della curia di Milano da decenni innerva la miglior riflessione in materia. Bazoli ha distinto la concezione del mestiere in due grandi modelli: da una parte il banker anglosassone, ispirato alla “spietata” – l’ha definita così – legge del mercato e alla produzione di valore per i propri azionisti; dall’altro il banchiere europeo, un vero attore dell’interesse nazionale che allo short termism finanziario antepone la responsabilità sociale. Il banchiere cattolico, secondo il professore, sarebbe una variante ancor più socialmente sensibile di questa seconda declinazione. Bertone, invece, si è limitato ad affermare l’obbligo alla coerenza nell’azione del banchiere rispetto alla fede e al magistero della Chiesa su primato della persona e centralità della famiglia.
Orbene, la conclusione è ahimé semplice. In Italia, anche in questi anni, i banchieri “cattolici” si sono contraddistinti per aver dato una gran mano affinché nomi storici del capitalismo nazionale continuassero a controllare grandi gruppi (attraverso scatole cinesi e leve finanziarie assai alte) malgrado i loro gravissimi errori. Diffido di banche che si presentino come depositarie della missione di preservare gli interessi “nazionali”, perché in realtà esse fino ad oggi hanno perseguito l’obiettivo di rafforzare l’intreccio relazionale banco-industriale che è il problema del capitalismo italiano. Mentre, invece, moltissimo resta ancora da fare prima che un banchiere cristiano si spinga a offrire prodotti finanziari veramente convenienti per i piccoli risparmiatori e le famiglie, rendendo finalmente “bancabile” il tempo-lavoro futuro di chi oggi è giovane e precario, il tempo-studio di chi punta sull’eccellenza della propria formazione, il tempo-mutuabile di chi a vent’anni scommette che si comprerà una prima casa anche senza garanzie reali. È sbagliato credere che la finanza innovativa per i bassi redditi si debba praticare solo in India: in Italia sono le famiglie la fascia debole più tartassata e spennata dalle banche, che invece riservano ai grandi nomi del capitalismo prezzi e affari che il mercato altrimenti boccerebbe. Che il banchiere cattolico finisca per essere lo scudo dei potenti che sbagliano, dimenticando peraltro che è la base retail del credito a fornire alle banche stesse la grande massa delle risorse, ha l’apparenza del paradosso. Più di Bazoli ha ragione monsignor Bertone, dunque. Cari banchieri cattolici, fateci vedere cosa sapete fare per le famiglie. Vi saremmo molto più grati di tutte le mani che date a Tronchetti Provera.

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