Diciamo la verità. Se nel suo tour in Asia il premier Monti ha dovuto iniziare ad affermare: «Nel caso in cui il paese non fosse pronto, possiamo anche andarcene» e se Pierferdinando Casini sin da domenica scorsa ha lanciato l’allarme crisi di governo possibile, è il segno – sia pur da non prendere troppo sul serio – che sulla riforma del mercato del lavoro qualcosa di rilevante si è inceppato, nel meccanismo sin qui quasi perfetto che rendeva il governo di emergenza padrone dell’agenda nazionale. Dico “quasi” perfetto perché una prima avvisaglia c’era stata sul decreto liberalizzazioni, di molto modificato in Parlamento. Ma, si sa, le liberalizzazioni fanno molto parlare noi tifosi del mercato, purtroppo non colpiscono molto l’immaginario popolare. Cosa tutt’affatto diversa è la questione dell’articolo 18 e della minor rigidità in uscita dal mercato del lavoro, dopo quaranta e più anni di immobilismo conservativo.
Sull’articolo 18, sin qui Susanna Camusso è stata una stratega sopraffina. Ha incassato all’inizio, e senza spendere una sola parola di troppo, il drastico giro di vite nella flessibilità all’ingresso, sostenuto da Elsa Fornero e dai suoi giovani ricercatori torinesi che hanno lavorato sui testi. Credo che nessun governo politico “di sinistra” se la sarebbe sentita di imprimere al tempo determinato, alle partite Iva, ai co.co.pro e al tempo parziale una simile botta di aumenti contributivi, accrescimenti dell’intervallo temporale per poterne usufruire, indicazioni presuntive di mero travestimento di rapporti a tempo indeterminato sgravati e dunque tali da poter essere imperativamente trasformati in assunzioni a pieno titolo, appesantimento di criteri autorizzativi ex ante e di controlli ex post. La mia assoluta convinzione è che in recessione ne deriverà un abbattimento dell’occupazione. Ma ripeto: fa parte del mantra “lotta alla precarietà”, anche se dovunque in Europa per combatterla si è assunto il criterio opposto, cioè quello di abbassare le pretese contributive e fiscali sul reddito di questa fascia di lavoratori, nel mentre che si abbassavano i contributi anche sul lavoro a tempo determinato, per incentivarlo. Da noi lo Stato assetato segue la strada contraria. Anche Stefano Fassina, il responsabile economico del Pd che sin dall’inizio ha seguito la Camusso nel no al resto delle formulazioni di Fornero, ha convenuto a Radio 24 che la via scelta è sbagliata e che occorreva tagliare la spesa pubblica per abbassare i contributi sul lavoro e sull’impresa.
In ogni caso, alla Cgil la maggior rigidità in entrata va bene. E a questo obiettivo la leader Cgil ne ha aggiunto un secondo, puntando i piedi e annunciando scioperi a valanga contro l’articolo 18 riscritto da Fornero. Ha indotto anche Cisl e Uil a unirsi nella richiesta che anche per i licenziamenti economici il giudice possa disporre il reintegro oltre all’indennizzo, come accade per i casi disciplinari. Col che la riforma è svuotata. Anche pezzi del Pdl la pensano così. Per esempio Giuliano Cazzola, che sostiene come sia difficile immaginare che per il lavoratore venuto meno ai propri doveri, ma a opinione del giudice non così tanto da giustificare il licenziamento, possa scattare il reintegro giudiziale e invece no per quello espulso per ragioni economiche sostenute dall’impresa. Io penso che sia invece più che ragionevole, dal momento che le motivazioni economiche identificano logiche di efficienza che non possono essere avvicinate alle contestazioni disciplinari. Ma la mia opinione conta zero.
La terza vittoria di Susanna è stato l’allineamento in un paio di giorni del Pd alla sua posizione, divenuta nel frattempo quella di tutti i confederali. La quarta è aver fatto emergere durante il Consiglio dei ministri del 23 marzo, per la prima volta nel governo, una frattura politica manifesta. Con il ministro Fabrizio Barca alla testa della componente “di sinistra”, questa volta esplicitamente critico sulla riforma così come è stata proposta da Fornero e difesa da Monti (che l’ha definita “intoccabile” sull’articolo 18). Scusate se è poco. Quando si è trattato di scegliere il veicolo parlamentare per la riforma, al premier non è restato che ripiegare sul disegno di legge. Aperto a tutte le modifiche. E che in nessun caso sarà approvato prima che i partiti si contino, alle amministrative.
Se le cose dovessero prendere questa piega – e attualmente ci scommetterei – ne potrebbe derivare un forte e anche fortissimo alleggerimento della capacità riformatrice del governo. Con un larghissimo anticipo, considerati i 14 mesi di vita piena che l’esecutivo ha ancora davanti a sé. E con un riservato ma logico imbarazzo del Quirinale, che ha provato all’inizio a difendere l’impostazione della riforma, ma si è trovato a fare i conti con la capacità della Cgil di far leva su quel 60 per cento abbondante di italiani che di licenziabilità non ne vogliono proprio sentir parlare. Vedremo che cosa s’inventa, Monti per evitare che la malaparata si tramuti in un pessimo segnale ai mercati mondiali. La stagione delle riforme è già finita?